Occupazione a picco. Basterà un'aspirina contro il virus americano?
di Guglielmo Forges Davanzati
Uno dei più importanti tasselli della costruzione macroeconomica neo-liberista (pre e post crisi) riguarda il presunto obiettivo – da parte delle organizzazioni sindacali – di tutelare i soli interessi dei lavoratori iscritti, favorendo, in tal modo, il ‘conflitto orizzontale’ fra insider e outsider, e soprattutto contribuendo a ridurre il tasso di occupazione. La ratio che è a fondamento di questo argomento sta nella convinzione che poiché sussiste una relazione inversa fra salario e occupazione, tentare – in sede di contrattazione collettiva – di accrescere l’occupazione implica, se la contrattazione ha buon esito, ridurre il salario dei lavoratori già occupati. A ciò si aggiunge che, poiché questi ultimi dispongono di competenze specifiche che l’impresa può difficilmente sostituire, i lavoratori occupati, e soprattutto quelli che l’impresa può licenziare solo a costo di dover sostenere i costi di formazione dei nuovi assunti, eserciteranno pressioni nei confronti della leadership sindacale (e dell’impresa stessa) affinché non si impegni ad accrescere l’occupazione. Il sindacato diventa così monopolista nel mercato del lavoro, e la politica economica deve farsi carico di ridurne il potere contrattuale a beneficio della collettività dei lavoratori. Almeno parzialmente l’obiettivo è stato raggiunto: l’ultimo rapporto ISTAT certifica che le ore di sciopero si sono ridotte di circa 5 ore dal dicembre 2007 al dicembre 2008.
Questa impostazione teorica è alla base delle politiche del lavoro messe in atto negli ultimi anni, con significativa accelerazione a seguito dei recenti accordi sulla contrattazione di secondo livello. Più in generale, il depotenziamento delle organizzazioni sindacali passa anche attraverso una più severa disciplina del diritto di sciopero nei servizi pubblici e – ancor di più – attraverso la sua delegittimazione sociale. La convinzione che le ‘nuove’ modalità di organizzazione del lavoro si basano su rapporti cooperativi fra impresa e lavoratore implica che il conflitto è sempre, e in quanto tale, un fattore di distorsione nell’allocazione delle risorse nel mercato del lavoro e all’interno dell’impresa.
L’ultimo rapporto Unioncamere registra una contrazione dell’occupazione, in Italia, di 89 mila unità nel primo trimestre 2009. Se è vero che il problema è generato dalla crisi in atto, è altrettanto indiscutibile che le politiche di ‘flessibilità del lavoro’ contribuiscono ad aggravarlo, se non altro per il fatto che indeboliscono il potere contrattuale dei lavoratori rendendo più facili i licenziamenti. In questo contesto, il maggior peso che si intende far assumere alla contrattazione di secondo livello – ulteriore tassello posto alla precarizzazione del lavoro - non può che essere peggiorativo per gli equilibri macroeconomici. Si consideri che, stando all’ultimo rapporto Istat, la gran parte delle imprese meridionali ha un numero di dipendenti inferiore a nove: è del tutto evidente che, in queste imprese, la contrattazione decentrata semplicemente non c’è. Più in generale, la struttura industriale italiana è fatta di imprese di piccole e medie dimensioni, così che è ragionevolmente prevedibile che il nuovo assetto delle relazioni industriali genererà un ulteriore calo dei salari.
E’ convinzione diffusa che la crisi in atto è una crisi da bassi consumi e, dunque, da bassi salari. La caduta della domanda si associa inevitabilmente alla caduta dell’occupazione e, dunque, la strategia del Governo sembrerebbe in prima approssimazione del tutto irrazionale: ciò che occorrerebbe fare è semmai rilanciare la domanda interna, mediante politiche fiscali espansive che accrescano salari, occupazione e consumi.
Al riscontro empirico di Unioncamere fa immediatamente seguito la richiesta di aiuto da parte di Confindustria, volta a ottenere immediatamente risorse per far fronte a profitti in declino. Incidentalmente, si può osservare che mentre la proposta di estensione dei sussidi di disoccupazione da parte del PD è stata bocciata con l’argomento dell’eccessivo debito pubblico italiano, il Governo ha risposto positivamente all’appello della Presidente Marcecaglia: una curiosa deroga – tutta italiana - agli accordi europei e al dogma della ‘sana finanza pubblica’, che consente di aiutare le imprese ma non i disoccupati.
Confidustria si premura di precisare che quelle risorse verranno reinvestite, facendo intendere che è solo mediante aiuti da parte dello Stato all’imprenditoria privata che l’occupazione può crescere. E’ una tesi che si presta ad almeno due obiezioni:
1) in un’economia globale caratterizzata da accentuati movimenti internazionali dei capitali, non vi è nessuna garanzia che gli (eventuali) investimenti aggiuntivi creino posti di lavoro in Italia. Vi è anzi ragione di ritenere che – almeno in parte – possano andare a beneficio di Paesi nei quali i salari sono relativamente più bassi, dal momento che il mercato del lavoro non è più locale e i costi di trasporto e delocalizzazione sono risibili.
2) Come è stato osservato da non pochi economisti, sembrerebbe che la crisi attuale sia anche imputabile all’indebolimento della propensione all’accumulazione, che costituisce un requisito essenziale della riproduzione capitalistica. La dislocazione di parte dei profitti in attività improduttive (la speculazione sui mercati finanziari in primo luogo) dà prova di questa convinzione.
Come osservava Keynes, nelle Conseguenze economiche della pace, il capitalismo si basa su un “doppio inganno”. Da una parte i lavoratori si appropriano di una piccola parte della torta che hanno contribuito a produrre, mentre i capitalisti ne ricevono “la miglior parte”, con la tacita condizione di non consumarla, ma di destinarla prevalentemente agli investimenti produttivi. Sarebbe opportuno che, prima di trasferire fondi dei contribuenti all’imprenditoria privata, il Governo provi almeno ad accertare se questa “tacita condizione” sussiste ancora.
( Nuovo Quotidiano di Puglia)