di Guglielmo FORGES DAVANZATI
In tedesco debito significa anche colpa. E, dunque, si può supporre che per i cittadini tedeschi, e soprattutto per il loro Governo, l’indebitamento pubblico sia un male in quanto tale. E tuttavia, è proprio il limite che la Germania pone alla crescita della spesa pubblica interna a essere la principale causa della crisi dell’Unione monetaria europea; che – si badi – è anche (e soprattutto) crisi delle aree periferiche del continente, e del Mezzogiorno.
La questione può porsi in questi termini. A seguito dello scoppio della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti, nel biennio 2007-2008, la domanda mondiale di beni e servizi, sostenuta nel decennio precedente, dall’indebitamento dei lavoratori statunitensi, si è drammaticamente ridotta, generando una enorme crescita della disoccupazione nell’area Ocse.
Stando alle ultime stime Ocse, esistono, nei Paesi industrializzati, quasi cinquanta milioni di disoccupati, un livello mai raggiunto dal secondo dopoguerra. Nel corso del 2009, la gran parte dei governi dei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi (Usa in primis) sembra voler riproporre le politiche keynesiane di rilancio della domanda mediante aumenti della spesa pubblica; e, almeno negli Stati Uniti, è quanto effettivamente si è fatto. L’Europa, la cui unificazione monetaria si basa su un impianto liberista, ha continuato, per contro, lungo la linea del ‘rigore finanziario’, ovvero di compressione della spesa pubblica per frenare l’aumento del debito pubblico. Non a caso, anche a seguito delle ‘raccomandazioni’ europee, la recente manovra finanziaria del Governo italiano reitera le politiche di “lacrime e sangue” che, purtroppo, subiamo da circa un ventennio.
Occorre chiarire che queste politiche comportano inevitabilmente ulteriore impoverimento dei lavoratori italiani, riducendone i salari, e ulteriori problemi per le imprese italiane, riducendone i mercati di sbocco e, dunque, i profitti. Il tutto in nome del rispetto di criteri di sostenibilità del rapporto debito pubblico/Pil, che non solo non trovano alcun sostegno scientifico, ma che, come ampiamente dimostrato, non scoraggiano attacchi speculativi. Sia qui sufficiente ricordare che nei giorni nei quali si è generata la crisi greca, il rapporto debito/Pil, in quel Paese, era del 120% a fronte del 118% in Italia.
Il problema che si pone per l’Europa attiene essenzialmente al fatto che, riducendosi la domanda su scala globale, le imprese europee – particolarmente quelle collocate nelle aree periferiche (Mezzogiorno in primis) – non trovano uno sbocco adeguato per le loro produzioni. Il problema è accentuato dalla linea di rigore imposta dalla Germania ai Paesi membri, e perseguita dalla Germania stessa, unico Paese europeo ad avere conti con l’estero in attivo. L’accumulo di avanzi commerciali segnala il fatto che le imprese tedesche, grazie anche a una dinamica della produttività significativamente maggiore di quella salariale, riescono ad acquisire crescenti quote di mercato anche nei mercati dell’eurozona, generando una spirale perversa che vede i Paesi periferici indebitarsi nei confronti della Germania e la Germania praticare nuove forme di ‘espansionismo’, tutte giocate sul piano dei rapporti commerciali, a danno delle aree europee più deboli.
Ciò spiega la riluttanza del Governo tedesco a mettere in atto politiche fiscali espansive, dal momento che queste – accrescendo la domanda interna – accrescerebbero le importazioni, peggiorando il saldo della bilancia dei pagamenti. Ma, anche a prescindere dagli enormi costi sociali derivanti da politiche di ‘austerità’, delle quali, peraltro, non vi è alcun bisogno, se non per favorire i grandi capitali del centro del continente, questa strategia rischia di rivelarsi controproducente sul piano degli equilibri macroeconomici all’interno dell’Unione monetaria europea, mettendone a repentaglio, come da più parti osservato, la sua stessa sopravvivenza.
In questo scenario, il Governo tedesco ha davanti a sé una scelta ineludibile: riproporre politiche di contenimento del debito, dalle quali i capitali tedeschi traggono vantaggio, o praticare politiche fiscali espansive, che consentirebbero alle imprese collocate in altri Paesi del continente di recuperare parte dei margini di profitto persi in questi anni mediante l’aumento delle esportazioni in Germania.
In ogni caso, il dilemma pone in evidenza un problema di più ampia portata. L’unificazione europea è avvenuta sulla base della convinzione che i soli meccanismi di mercato avrebbero spontaneamente prodotto la convergenza dei redditi pro-capite dei Paesi membri, e dunque crescita economica, a condizione che si fossero realizzate politiche di deregolamentazione dei mercati (del mercato del lavoro in primis), privatizzazioni, riduzione dell’intervento pubblico, Tutto ciò è stato fatto. I risultati sono decisamente deludenti. La crisi dovrebbe insegnare che ciò che ora occorre fare, e possibilmente farlo subito, è invertire la rotta, abbandonando le prescrizioni neoliberiste. E, per fare questo, occorre ripensare l’assetto istituzionale europeo.
Non è sufficiente un coordinamento delle sole politiche monetarie, relegate alla Banca Centrale europea; l’impostazione del Trattato di Maastricht è assolutamente inadeguata, proprio perché si basa su quella impalcatura neoliberista che è all’origine della crisi globale e della più recente crisi europea. Appare sempre più necessario dotarsi di un Governo europeo che abbia piena responsabilità in merito agli indirizzi di politica fiscale. L’alternativa, da scongiurare ma niente affatto impossibile, potrebbe essere la fuoriuscita dall’euro dei Paesi che maggiormente avvertono la crisi, o per l’impossibilità di rispettare i criteri della ‘sana finanza pubblica’ tramite continue compressioni dei salari e del welfare stare, o per convenienza. Dopo tutto, lo sviluppo dell’economia italiana, dal dopoguerra in poi, si è reso possibile anche grazie alle svalutazioni competitive: modifiche unilaterali del tasso di cambio che hanno consentito alle nostre imprese di recuperare competitività nei mercati internazionali, oggi impossibili avendo adottato la moneta unica.
La questione può porsi in questi termini. A seguito dello scoppio della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti, nel biennio 2007-2008, la domanda mondiale di beni e servizi, sostenuta nel decennio precedente, dall’indebitamento dei lavoratori statunitensi, si è drammaticamente ridotta, generando una enorme crescita della disoccupazione nell’area Ocse.
Stando alle ultime stime Ocse, esistono, nei Paesi industrializzati, quasi cinquanta milioni di disoccupati, un livello mai raggiunto dal secondo dopoguerra. Nel corso del 2009, la gran parte dei governi dei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi (Usa in primis) sembra voler riproporre le politiche keynesiane di rilancio della domanda mediante aumenti della spesa pubblica; e, almeno negli Stati Uniti, è quanto effettivamente si è fatto. L’Europa, la cui unificazione monetaria si basa su un impianto liberista, ha continuato, per contro, lungo la linea del ‘rigore finanziario’, ovvero di compressione della spesa pubblica per frenare l’aumento del debito pubblico. Non a caso, anche a seguito delle ‘raccomandazioni’ europee, la recente manovra finanziaria del Governo italiano reitera le politiche di “lacrime e sangue” che, purtroppo, subiamo da circa un ventennio.
Occorre chiarire che queste politiche comportano inevitabilmente ulteriore impoverimento dei lavoratori italiani, riducendone i salari, e ulteriori problemi per le imprese italiane, riducendone i mercati di sbocco e, dunque, i profitti. Il tutto in nome del rispetto di criteri di sostenibilità del rapporto debito pubblico/Pil, che non solo non trovano alcun sostegno scientifico, ma che, come ampiamente dimostrato, non scoraggiano attacchi speculativi. Sia qui sufficiente ricordare che nei giorni nei quali si è generata la crisi greca, il rapporto debito/Pil, in quel Paese, era del 120% a fronte del 118% in Italia.
Il problema che si pone per l’Europa attiene essenzialmente al fatto che, riducendosi la domanda su scala globale, le imprese europee – particolarmente quelle collocate nelle aree periferiche (Mezzogiorno in primis) – non trovano uno sbocco adeguato per le loro produzioni. Il problema è accentuato dalla linea di rigore imposta dalla Germania ai Paesi membri, e perseguita dalla Germania stessa, unico Paese europeo ad avere conti con l’estero in attivo. L’accumulo di avanzi commerciali segnala il fatto che le imprese tedesche, grazie anche a una dinamica della produttività significativamente maggiore di quella salariale, riescono ad acquisire crescenti quote di mercato anche nei mercati dell’eurozona, generando una spirale perversa che vede i Paesi periferici indebitarsi nei confronti della Germania e la Germania praticare nuove forme di ‘espansionismo’, tutte giocate sul piano dei rapporti commerciali, a danno delle aree europee più deboli.
Ciò spiega la riluttanza del Governo tedesco a mettere in atto politiche fiscali espansive, dal momento che queste – accrescendo la domanda interna – accrescerebbero le importazioni, peggiorando il saldo della bilancia dei pagamenti. Ma, anche a prescindere dagli enormi costi sociali derivanti da politiche di ‘austerità’, delle quali, peraltro, non vi è alcun bisogno, se non per favorire i grandi capitali del centro del continente, questa strategia rischia di rivelarsi controproducente sul piano degli equilibri macroeconomici all’interno dell’Unione monetaria europea, mettendone a repentaglio, come da più parti osservato, la sua stessa sopravvivenza.
In questo scenario, il Governo tedesco ha davanti a sé una scelta ineludibile: riproporre politiche di contenimento del debito, dalle quali i capitali tedeschi traggono vantaggio, o praticare politiche fiscali espansive, che consentirebbero alle imprese collocate in altri Paesi del continente di recuperare parte dei margini di profitto persi in questi anni mediante l’aumento delle esportazioni in Germania.
In ogni caso, il dilemma pone in evidenza un problema di più ampia portata. L’unificazione europea è avvenuta sulla base della convinzione che i soli meccanismi di mercato avrebbero spontaneamente prodotto la convergenza dei redditi pro-capite dei Paesi membri, e dunque crescita economica, a condizione che si fossero realizzate politiche di deregolamentazione dei mercati (del mercato del lavoro in primis), privatizzazioni, riduzione dell’intervento pubblico, Tutto ciò è stato fatto. I risultati sono decisamente deludenti. La crisi dovrebbe insegnare che ciò che ora occorre fare, e possibilmente farlo subito, è invertire la rotta, abbandonando le prescrizioni neoliberiste. E, per fare questo, occorre ripensare l’assetto istituzionale europeo.
Non è sufficiente un coordinamento delle sole politiche monetarie, relegate alla Banca Centrale europea; l’impostazione del Trattato di Maastricht è assolutamente inadeguata, proprio perché si basa su quella impalcatura neoliberista che è all’origine della crisi globale e della più recente crisi europea. Appare sempre più necessario dotarsi di un Governo europeo che abbia piena responsabilità in merito agli indirizzi di politica fiscale. L’alternativa, da scongiurare ma niente affatto impossibile, potrebbe essere la fuoriuscita dall’euro dei Paesi che maggiormente avvertono la crisi, o per l’impossibilità di rispettare i criteri della ‘sana finanza pubblica’ tramite continue compressioni dei salari e del welfare stare, o per convenienza. Dopo tutto, lo sviluppo dell’economia italiana, dal dopoguerra in poi, si è reso possibile anche grazie alle svalutazioni competitive: modifiche unilaterali del tasso di cambio che hanno consentito alle nostre imprese di recuperare competitività nei mercati internazionali, oggi impossibili avendo adottato la moneta unica.