Crisi economica e conflittualità sociale
Se la protesta diventa devianza
di Guglielmo Forges Davanzati
Ad agosto, nel carcere di Lecce, a fronte di 660 posti disponibili, è stato raggiunto il numero di 1500 detenuti. Al di là degli aspetti giuridici e sociali del fenomeno, è utile provare a individuarne la cause strettamente economiche. Si può partire dalla constatazione stando alla quale non sembra ancora all’orizzonte una ‘luce in fondo al tunnel’ della crisi e l’evidenza empirica disponibile segnala ulteriori aumenti della disoccupazione e ulteriori riduzioni dei salari su scala internazionale. Per quanto riguarda l’Italia, è qui sufficiente richiamare l’ultima rilevazione della CGIA, stando alla quale nell’ultimo trimestre del 2010 verranno persi ulteriori settantamila posti di lavoro. Dopo la brevissima stagione, lo scorso anno, nella quale alcuni Governi dei Paesi industrializzati predisponevano politiche di rilancio della domanda aggregata mediante aumenti della spesa pubblica, prevale oggi una linea di ‘austerità’ che – con ogni evidenza – non può che aggravare i problemi. Ciò per almeno due ragioni. In primo luogo, le politiche di austerità, ovvero di contrazione della spesa pubblica, riducendo la domanda, riducono l’occupazione; e, a sua volta, la riduzione dell’occupazione, in quanto riduce il potere contrattuale dei lavoratori, riduce i salari. In secondo luogo, in assenza di iniezioni esterne di liquidità, politiche di bassi salari e alta disoccupazione su scala globale restringono i mercati di sbocco per la produzione, riducendo i margini di profitto e gli investimenti. Vi è di più. Se, come la visione dominante sostiene, la riduzione della spesa pubblica è funzionale alla riduzione del rapporto debito pubblico/PIL, e dunque a scongiurare attacchi speculativi, va rilevato che, per contro, il nesso causale è precisamente l’opposto: il calo dell’occupazione riduce la produzione e, dunque, il PIL; la riduzione dei redditi riduce la base imponibile e, di conseguenza, accresce il debito pubblico. In altri termini, le politiche di austerità rischiano di generare esattamente gli effetti che si propongono di non produrre, aumentando l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL.
Non si tratta di questioni meramente teoriche, da relegare al dibattito fra addetti ai lavori. Il modello di sviluppo che si sta costruendo è caratterizzato da almeno due pilastri che pongono a rischio la coesione sociale nei Paesi maggiormente colpiti dalla crisi: è fortemente diseguale ed è escludente. Si tratta di due aspetti correlati che rinviano a modalità relativamente nuove di conflittualità sociale. La conflittualità sociale che abbiamo conosciuto nel corso del Novecento si è essenzialmente manifestata mediante la rivendicazione di più alti salari e di una maggiore tutela del lavoro dipendente; rivendicazione, di norma, mediata dalle organizzazioni sindacali. Due movimenti congiunti hanno contribuito alla notevole erosione del potere contrattuale del sindacato: da un lato, le politiche di precarizzazione del lavoro che hanno segmentato il mercato del lavoro spezzando i legami di solidarietà fra lavoratori senza i quali l’azione sindacale si rende impossibile; dall’altro, la cosiddetta globalizzazione che ha permesso alle imprese di avvalersi di un bacino di forza-lavoro potenziale sostanzialmente illimitato, e comunque esteso su scala planetaria. Su fonte OCSE, si stima che la union density, ovvero la percentuale di iscritti a un sindacato in rapporto alla forza-lavoro, è passata, in Italia, dal 1999 al 2007 dal 36% al 33%. Risulta molto maggiore la perdita di iscritti negli altri Paesi industrializzati dove, tradizionalmente, le motivazioni lato sensu politico-ideologiche che spingono all’affiliazione a partiti politici e sindacati sono significativamente di minore intensità.
Anche al netto della crisi in corso, il ridimensionamento del potere contrattuale dei lavoratori ha ridotto, se non del tutto azzerato, la loro capacità di configgere non solo nell’ambito delle relazioni industriali, ma – più in generale – nell’arena socio-politica. Si tratta di un dato di fatto che, è bene chiarire, prescinde dal giudizio di valore sul conflitto stesso e, per converso, sulla (presunta) attitudine ‘cooperativa’ dei sindacati nelle relazioni industriali degli ultimi anni, e che riguarda un aspetto spesso trascurato dagli economisti. Se anche si ammette che la riduzione della conflittualità generi effetti macroeconomici positivi (ad esempio, perché incentiva gli investimenti), la conflittualità non espressa nelle relazioni industriali si manifesta altrove, con danni anche economici niente affatto trascurabili. Ci si riferisce all’alternativa fra exit e voice, ovvero fra protesta e ‘devianza’, ovvero – nella sostanziale assenza della prima – all’aumento rilevante delle forme di conflittualità non istituzionalizzate. Ci si riferisce, in altri termini, all’aumento della criminalità imputabile alla povertà crescente e alla crescente disuguaglianza della distribuzione dei redditi. Il problema è stato a lungo studiato negli Stati Uniti e lì le indagini più recenti segnalano un incremento estremamente rilevante del numero di crimini e di sovraffollamento delle carceri. E si calcola che circa 1/5 della forza-lavoro statunitense è impegnata in attività di repressione e sorveglianza. Lo ‘Stato prigione’ è la definizione data a questo modello di sviluppo. Un’economia nella quale il settore improduttivo è a tal punto esteso è un’economia che sostiene costi diretti e indiretti rilevanti: i detenuti – e coloro che li sorvegliano - non contribuiscono alla crescita economica, il loro controllo grava sul bilancio pubblico, la diffusa presenza di attività criminali disincentiva gli investimenti, riducendo, anche per questa via, il tasso di crescita. Una ulteriore controindicazione associata alle politiche di contrazione della spesa pubblica consiste precisamente in questo: poiché la riduzione della spesa pubblica riduce l’occupazione già nel breve periodo, si rende necessario prima o poi accrescerla per ridurre la conflittualità sociale che la sua riduzione ha comportato.
L'articolo può essere letto anche sul Nuovo Quotidiano di Puglia di oggi 3 settembre 2010