venerdì 22 aprile 2011


In una rosa l'illusione di pace a Sarajevo
di Tony Tundo



"Più nessuno mi porterà a Sarajevo” si potrebbe dire parafrasando S. Quasimodo, perché la Bosnia fa paura, anche a chi là è nato fa paura vedere una città mutilata, ferita, violentata, privata della sua identità, dei suoi libri, da una guerra senza una verità storica ma tante verità politiche "di comodo". Oggi si evoca, dopo anni di smemoratezza, la guerra della ex-Jugoslavia perché l’ombra cupa e lunga della memoria di quell’orrore si proietta sulle guerre di oggi, se ne fa qualche rapido accenno nei dibattiti televisivi, in un trafiletto sul quotidiano, ma come di un fatto archiviato. I libri-documento non sono stati ripubblicati per anni, ora però qualcosa si muove, ritornano in libreria: Abdulah Sidran (Romanzo balcanico, ed. Aliberti), Emir Kusturica (Dove sono in questa storia,ed. Feltrinelli), Miljenko Jergovic (Freelander, ed. Zandonai), e da ultimo il giornaliata italiano Franco Di Mare (Non chiedere perché, ed. Rizzoli); è di moda sapere di Sarajevo, la città che porta i segni delle mitraglie dei cecchini. Che ne è di un popolo straziato dalle atrocità di una guerra? "come se non fossimo /più numerosi in giro per il mondo /di quanti siamo /rimasti a casa" (Jugonostalgia - Abdulah Sidran) Lo hanno dissanguato, privato dell’identità, della storia, ne hanno sfruttato la multiculturalità per fratturare definitivamente lo sforzo millenario di convivenza pacifica. Hanno distrutto la sua grande biblioteca, la Vijećnica, nuova Alessandria: montagne di libri – le prove che accusano, l’emblema della libertà - finiti in un rogo, un mucchio di cenere. Restaurata per ospitare i burocrati municipali.
Vijećnica è il simbolo della distruzione di Sarajevo e della Bosnia Erzegovina. Custodiva, prima della guerra, un milione e mezzo di libri, rari e preziosi, era l’unico archivio nazionale. Bombardavano tutta la città, ma quel rogo fu per tutti i cittadini, anche per chi non era un frequentatore della biblioteca, il simbolo del lutto. Fu avvertita nel mondo intero come una catastrofe culturale. Usano e distruggono il cuore della civiltà di un popolo. Insieme ai libri, prima dei libri, hanno “usato” le donne come all’origine dei tempi, dalle Sabine rapite e stuprate dai Romani: il diritto del vincitore, l’assoggettamento estremo dei vinti, la donna primo trofeo, merce di scambio. (Chi ricorda un insegnante di storia che abbia raccontato il mis-fatto se non come un fatto dentro alla comune logica degli eventi storici?) E’ successo con le donne di Nanchino stuprate dai giapponesi di Hiro Hito, nei lager nazisti, e con le donne tedesche violentate dai sovietici, in tutte le guerre civili, in Italia nella Resistenza, poi nelle foreste del Vietnam. Soltanto nel 1998 le Nazioni Unite hanno incluso fra i crimini contro l’umanità “stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità” - reato rubricato nel diritto, derubricato nella cosiddetta coscienza collettiva – proprio dopo i massacri della ex- Jugoslavia e del Ruanda. Soltanto nel 1998, dunque, quando altri accordi erano pure stati stipulati: la Conferenza dell’Aja del 1907, i Principi di Norimberga e di Tokyo (1945-46), la Convenzione di Ginevra del 1949 che vietava prima le “violenze contro la vita e le persone, specie l’assassinio, le mutilazioni, le crudeltà, le torture”), poi anche lo stupro. Ci voleva tanta brutalità. Eppure ancora persiste l'evidente volontà di mistificare la memoria delle bestialità della guerra nei territori della ex-Jugoslavia né si dirada la nebbia sulla Bosnia. La terra del paradosso, il popolo che ha visto il diavolo (i cetnici) e la Madonna (i misteri di Međugorje): migliaia di donne stuprate, bambini mutilati, vite buttate come povere cose logore per l’uso, una generazione polverizzata, e, parallelamente, la terra dei miracoli, delle veggenti, delle folle a Medugorje. Oppure forse non c’è alcun paradosso, bisognerebbe passare attraverso la guerra, perché niente è più come prima dopo una guerra; non è come prima a Sarajevo: la biblioteca ricostruita è un simulacro utile solo a dimostrare l’efficienza della ricostruzione; il ponte Mostar, per secoli simbolo dell’unione fra le due zone della città, la musulmana e la cristiana, luogo d’incontro come tutti i ponti, oggi, ricostruito, è solo frequentato da turisti, gente anonima curiosa di vedere Sarajevo oggi, non più la splendida città imperiale, la Gerusalemme d’Europa. Un paese devastato dalla guerra si può solo rattoppare, là le chiamano "le rose di Sarajevo": i buchi dei mortai vengono cementati e tinteggiati di rosso, come se un’illusione di pace fiorisca spontaneo fra le crepe di un muro mutilato. Quali toppe per decine di migliaia di donne rinchiuse nei lager, costrette alle umiliazioni più feroci, a portare nel proprio grembo figli dei soldati serbi, a prostituirsi e poi cercare l’aborto, colpevoli di voler negare la vita, spesso scacciate dalla famiglia, dai mariti “offesi”?
Una degenerazione “naturale” della guerra, questo si diceva, è naturale, perciò, che stia accadendo ora in Costa d’Avorio, in Congo, nel Sudan, e in Libia. E’ naturale anche che le denunce di medici libici che hanno visto o quelle di monsignor Martinelli, vicario apostolico a Tripoli e vescovo di Verona, che ha raccolto i disperati appelli delle vittime di stupro e mutilazioni subite a Misurata siano confinate in tre righe di un giornale, per un giorno. Forse solo una forte fede può aiutare ad accettare il mistero della sofferenza perché Cristo portò la croce - questo ha risposto a una donna della Costa d'Avorio, nel suo dialogo con i fedeli di tutto il mondo per il venerdì santo, un Papa che niente può - ma la donna non è un cireneo.