martedì 19 aprile 2011

Cesare Pavese. 9 settembre 1908 – 27 agosto 1950

E allora noi vili
che amavamo la sera
bisbigliante, le case,
i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche
di quei luoghi, il dolore
addolcito e taciuto –
noi strappammo le mani
dalla viva catena
e tacemmo, ma il cuore
ci sussultò di sangue,
e non fu più dolcezza,
non fu più abbandonarsi
al sentiero sul fiume –
- non più servi, sapemmo
di essere soli e vivi. (Da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi)


Luogo dell’anima e luogo della mente, campagna e città, impegno politico e antimilitarismo, decadentismo e realismo, provincia e America, mito e realtà, in questa insanabile scissione interiore sono vicenda umana e opera letteraria di Cesare Pavese (1908-1950) Lui guardò in faccia le sue lacerazioni, le ammettè con sé stesso, le confidò a chi ebbe compagno nell’avventura letteraria ma la verità gli fu fatale. Leggere tutto Pavese dal diario Il mestiere di vivere attraverso i romanzi fino ai Dialoghi con Leucò – l’opera che amò di più – e alle lettere agli amici, alla sorella, alla Pivano, a Constance Dowling, l’ultima donna a lasciarlo nella sua solitudine, e leggere la grande biografia che ne fece l’amico Davide Lajolo "Il vizio assurdo" – che ha pregio letterario suo proprio – porta a due giudizi che non sembrano condivisi dagli studiosi di letteratura.
1) il coraggio fu la malattia di Pavese, non la viltà. 2) lui partecipò alla Resistenza creando, e traducendo - in tempi di autarchia - i rivoluzionari scrittori del nuovo mondo, l’”America pensosa e barbarica, felice e rissosa, dissoluta, feconda, greve di tutto il passato del mondo, e insieme giovane, innocente”; questo lo sanno tutti, ma che fu la sua una crociata pacifica contro la guerra quando tutti gli altri scovavano sempre da qualche parte le ragioni della guerra, questo non si dice. Invece una rilettura di un intellettuale tormentato dal dolore di una crepa inguaribile fra impegno e obiezione di coscienza in momenti come i nostri di nuova barbarie sembra attuale e utile, perché non è vero che tra di essi – impegno e obiezione di coscienza – c’è opposizione, al contrario essi dovrebbero coesistere per recuperare l’umanità. Lui ha testimoniato l’uomo nei suoi limiti e l’uomo non è certo nato per uccidere ma per l’amore, la bellezza, l’amicizia. Un personaggio tragico, non c’è dubbio, per questo chi si accosta a Pavese lo fa con diffidenza - abbiamo bisogno di eroi non certo di un antifascista che si rifiuta di imbracciare un fucile (e lui lo sa: “oggi non si può essere buoni italiani se non si ammazza un fascista”) - poi se ne allontana prudentemente perché riconosce nei personaggi dei romanzi di Pavese i segni della propria fragilità, delle proprie contraddizioni, per non subire l’attrazione fatale della sincerità che è il male che accompagnò lo scrittore, l’ossessione, il “vizio assurdo”, la tentazione della morte. Lui fu rivoluzionario nella cultura e isolato nella guerra partigiana. Lo sapevano bene i suoi amici di Torino: Massimo Mila, Franco Antonicelli, Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Norberto Bobbio e Augusto Monti, maestro di tutti. Lo vedevano taciturno nelle riunioni del gruppo degli antifascisti, i “cospiratori” primo embrione dei C.L.N., era taciturno perché il clima italiano e mondiale già da tanto, dall’eccidio del ’22 degli operai di Torino, erano nella sua coscienza come in quella collettiva ed erano nei suoi versi “C’è operai silenziosi, e qualcuno è già morto” (Una generazione da Lavorare stanca) e diventano motivi di riflessione sofferta dopo il ’36 quando Pavese sarà confinato a Brancaleone Calabro a causa delle lettere che riceveva e inviava ad Altiero Spinelli, in carcere. Silenzioso, ma non assente, se dopo le riunioni, rincasando, si attardava con Mario Sturani sempre sui temi storici e politici – uno sguardo alla sua luna - discutendo del pensiero storico di Thomas Mann, per lui il vangelo. Nel ’39 il clima già cupo si fece più violento, la propaganda militare martellante ed esaltata e l’ aggressione all’ Abissinia richiedevano da Pavese un nuovo pensiero, egli si andava convincendo della necessità dell’azione, della denuncia, della lotta di classe, non basta più non essere fascisti, ma rimarrà la penna l’arma della sua rivoluzione. I suoi personaggi sanno di miseria, di soprusi, di fatica e di oppressione (come i personaggi di Furore di Steinbeck, come nella poesia della libertà di Walt Whitman). Tutta la vita è politica. Il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine, come comunicare con gli altri. Nel ’40 un’altra donna riaccenderà in Pavese l’illusione dell’amore, motivo diventato ossessivo dopo il fallimento della lunga e tormentata relazione con la donna dalla voce rauca (sulla privatezza della sfera sentimentale di Pavese si è sbizzarrita la cronaca rosa insieme a semplicistiche diagnosi psicanalitiche), la donna è Fernanda Pivano, bella, brillante, ammiratissima, una promessa nell’ambiente letterario, è la storia di una profonda affinità elettiva, lavorano insieme ma lei non ricambia l'amore dello scrittore che tuttavia sente la profondità della loro intesa intellettuale, lo dice all’amico Davide Lajolo con questo pensiero di Fernanda Pivano: “Quando le piante sono perfettamente immobili fanno paura”. La metafora di un pensare dialettico e problematico, e sempre la presenza minacciosa della paura. Un sentimento condiviso totalmente.
La paura e la solitudine insistono nell’uomo e nello scrittore, sono il suo profilo, il pensiero, il manifesto nei romanzi della Resistenza, in particolare ne La casa in collina, uno dei più intensi. Corrado, il protagonista, si trova solo per un caso - è fuggito in collina dalla città - a condividere l’esperienza della clandestinità con la donna che ha amato anni prima, partigiana tra partigiani, ma è costretto a riconoscere la sua inazione, a mettere ancora a nudo l’ incapacità d’amare, la voglia inappagata di paternità (Cate, la donna, ha con sé un figlio che potrebbe essere di Corrado). I suoi compagni saranno arrestati, lui si metterà in salvo e la drammatica esperienza della fuga gli farà guardare da vicino la guerra nella sua insensatezza: "Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noi altri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione" Una delle pagine più intense e vere di denuncia della guerra.
Dopo la guerra Pavese esce dal partito comunista, avverte più forte il senso di non appartenenza alla storia ma continua a scrivere, ha successo - gli sembra - anche con le donne, arriva la donna americana e quando lo lascerà, con lei – dirà lo scrittore – andrà via la sua memoria, il suo tempo. E’ la fine. Le ultime parole sulla prima pagina del suo libro più amato I Dialoghi con Leucò, le stesse di Majakovskij: Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate molti pettegolezzi. L’errore fatale di Pavese – perché il coraggio uccide – è stato quell’impietoso mettere a nudo la propria impotenza ma la vita l’amò profondamente: il padre divoratore di libri anche se ne aveva un ricordo sbiadito, era morto quando lui aveva solo sei anni; la madre educatrice severa per temperamento e necessità; la gente del villaggio che si ritrova nel ragazzaccio Pale (Feria d’agosto), in Nuto (il falegname che conosceva le donne e la città) e nelle ragazze della campagna dei romanzi della Resistenza, prime vittime della violenza dei repubblichini e dei partigiani, come quelle di La luna e i falò: Irene, Silvia e Santa processata dai partigiani e uccisa, come Gisella di Paesi tuoi, figura tragica che più risente delle suggestioni dei modelli americani americani tra Faulkner e Dos Passos. Pavese amò i colori del ruscello di Santo Stefano Belbo, i profumi della vigna delle sue Langhe, la terra rossa delle sue colline:
...i dolori stessi mi sono cari
poiché tento di renderli nell'arte...(a Mario Sturani)