lunedì 11 aprile 2011





Non potrai imprigionare il vento, soffierebbe secondo i suoi voleri (Ḥāfeẓ Shīrāzī -1315-1390)


di Tony Tundo


Non per tutte le donne musulmane occidentalizzate il velo rappresenta il passato, la reclusione, l’ipocrisia, perché solo da poco è in vigore la legge, votata nell'ottobre del 2010, che in Francia – primo Paese in Europa - proibisce l’uso del niqab e del burqa in luoghi pubblici e la protesta si è fatta fortemente sentire, centro a Nôtre-Dame. Giovani donne dei sobborghi, le banlieue di Nantes, di Parigi, di Lione dove l’integralismo è più arrabbiato. Così in Italia: il dibattito parte e nei momenti di tensione politica può diventare occasione di scontro, financo "paletto" o ricatto in funzione di accordi tutti dentro alle logiche di una maggioranza dagli equilibri difficili. Al di là degli aspetti politici e del dibattito islam-laicità - già attivo in Francia e latente qui in Italia - nodo centrale dei fatti di oggi, è la questione del velo in sè che interessa capire; se è una libera scelta, perché una donna - spesso una giovane donna - si nasconde? Protezione? Espiazione? Abbiamo letto cronache di vite negate anche attraverso la voce di scrittrici e scrittori eretici, e perciò conosciamo, tante storie, storie romanzate, pertanto meno crude della realtà: la letteratura, ancora una volta, riflettore sui fatti. Violenze come costume, secondo una folle codificata logica non così diversa dalla violenza subita da donne cattoliche ai tempi dell’Inquisizione nel nostro Occidente; sempre lei - la donna - il pericolo, la strega. Da dove nasce il bisogno di queste donne di oggi che difendono la loro identità attraverso un segno? Da una manipolazione, evidentemente: il velo non è la fede, è il rito, lo strumento di oppressione, l'emblema politico. E il fondamentalismo, in nome di presunti valori inattaccabili, arriva a imporre limiti che partendo da spazi riservati alle donne arrivano fino all’infibulazione e alla lapidazione. Una trappola mostruosa. Fa pensare - sperare forse - un’iniziativa per certi versi straordinaria: un ciclo di interviste televisive, partito a Kabul nel gennaio scorso. Donne afghane che raccontano le violenze subite dai maschi della famiglia: padri, fratelli, mariti; esse diventano visibili dietro la maschera del niqab bianca come l’innocenza e blu come l’oppressione del burka, due colori e due realtà distinte da una linea come una bisettrice che divide il vissuto interiore e i limiti socio-culturali cui sono soggette. La televisione è la cifra del nostro tempo, così appare ragionevole che, se conoscere può aiutare a rompere le maglie delle catene dell’ignoranza, l’iniziativa possa avere del buono (pur nel dubbio di un’ennesima sporca speculazione sulla vittima).


Forse il niqab sul volto di donne coraggiose, nel paese d’origine, è un primo passo perché l’anima possa mostrarsi libera senza più maschera, uno stato di grazia - si direbbe se si trattasse di fantasia letteraria - che mette a nudo le verità più atroci per liberarsene. La sofferenza patita quotidianamente ha insegnato a queste donne la speranza, la comodità del nostro opulento occidente non può comprendere fino in fondo ma questo, proprio questo, è il tempo dell’impegno. E più rischi un problema comporta, più si impone la necessità di entrare dentro al problema, farlo proprio, sentirlo parte del nostro stesso vissuto, dal momento che i dati parlano chiaro: cresce esponenzialmente il numero di cittadini stranieri e con altre culture, altra religione nel nostro Paese. La dolce saggezza dei proverbi arabi può aiutare ad aprire un mondo, disvelare le radici positive della loro cultura che quanto più è vicina a noi occidentali, tanto meno mostriamo volontà di comprendere. "Un deserto di sabbia passa, le stelle rimangono".