
Le colonne e gli spazi dei media sono occupati, in questi giorni, più dalla mostra cinematografica di Venezia che dagli esuberi dell'Alitalia o dai tagli della scuola; forse, però, qualcosa di buono c'è, un grido forte e chiaro arriva, basta avere la volontà di raccoglierlo. Peccato che la mostra di Venezia sia soprattutto una passerella di vanità, peccato che sia anche un concorso e, si sa, i concorsi son sempre truccati, ma questa è un'altra storia...
Di buono c'è quest'anno il registro sociale. Non è una novità assoluta,il fil rouge tra cinema e realtà parte dal Neorealismo, ma quello, quel cinema non era riuscito a incidere davvero sulla realtà: troppo populismo, troppo scoperto vagheggiamento del primitivo, rigido schematismo, a dir la verità, deamicisiano nella contrapposizione tra bene e male, operai buoni-padroni cattivi senza complessità problematica.
L'impostazione di molti lavori in questa stagione cinematografica è, invece, documentaria: si va dal film etiope che racconta gli anni'70 di Hailé Selassié e gli '80 sotto la dittatura comunista di Menghistu alla Russia degli anni '60, quando gli astronauiti, tolto l'abito di eroi col quale sono stati consegnati alla storia, appaiono quali erano nella realtà (li chiamavano Laika, come la cagnetta) uomini sfruttati e sacrificati in nome dell'illusione proletaria, e la guerra fredda, quella di ieri e di oggi, torna nell'inedito "Rabbia" di P.P.Pasolini. Continua a leggere...
1 commento:
CONTINUAZIONE DEL POST:
E ancora c'è l'Inferno guardato in faccia dai soldati americani in Irak.
Ma prima e più di tutti ha infiammato il pubblico (si legge) per la forza della denuncia e per la sua verità agghiacciante il film di M. Calopresti "La fabbrica dei tedeschi", promette questo film di documentare lucidamente e senza nebulosità lo strazio delle morti sul lavoro alla Thyssenkrupp e la schizofrenia del capitalismo onnivoro. Qui l'occhio del regista si fa, ci prova, coscienza critica collettiva e si sostituisce all'informazione sbrigativa, quando non di parte,denuncia la latitanza dello Stato, svela la corrosione dei legami sociali in un presente che teorizza il primato del successo e del potere economico a tutti i costi, appunto a costo della vita.
Bene, allora; occorre riconoscere i meriti del cinema (quanti hanno conosciuto la pagina nera e ignota ai più del genocidio degli Armeni grazie al film "La masseria delle allodole" dei fratelli Taviani?), purché non si esca dal cinema soddisfatti, quasi che pietà, terrore, sensi di colpa si siano risolti, quasi avessimo trovato nel film l'occasione per una nostra personale catarsi, perché non è così che deve andare, siamo tutti complici e tutti responsabili e, al tempo stesso, potenziali vittime perché di lavoro si continua a morire.
t.t.
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