
John Maynard Keynes scriveva del capitalismo che “non è intelligente, né bello, né giusto, né virtuoso, né si comporta come dovrebbe. In breve non ci piace e anzi stiamo cominciando a detestarlo”. Pochi economisti contemporanei, anche di orientamento in senso lato critico, sottoscriverebbero la tesi che il capitalismo è suscettibile di un giudizio di valore e pochi sembrano essere interessati a mostrare che si tratta di un sistema intrinsecamente immorale. Eppure è difficile contestare il fatto che i processi economici reggono su basi morali, su norme di comportamento socialmente reputate giuste o ingiuste, e che la moralità dei nostri comportamenti è profondamente influenzata dal reddito disponibile. In generale, gli effetti delle scelte di politica economica sull’etica pubblica sono del tutto ignorate o affrontate nella sola sfera giuridico-normativa.
Il caso dell’economia sommersa è senz’altro emblematico. Un’ampia letteratura empirica documenta che le dimensioni del sommerso crescono al crescere del tasso di disoccupazione e aumentano nelle fasi recessive. Vi sono senza dubbio aspetti di stretta rilevanza economica che spiegano questo fenomeno, ma non appare irrilevante la considerazione che, poiché nelle fasi recessive, i profitti tendono a ridursi e si riducono i salari reali, aumenta contestualmente la domanda di lavoro nero e la sua offerta, e che ciò accade anche per l’indebolirsi dei vincoli etici da parte di imprese e lavoratori conseguente al loro impoverimento.
Se la risposta neoliberista consiste nel ritenere il sommerso un segno di ‘vivacità imprenditoriale’, in quanto tale da tollerare in attesa della sua spontanea regolarizzazione, le azioni di contrasto basate sul sanzionamento – pur messe in atto in Italia con alterne vicende da almeno un decennio - non hanno prodotto effetti significativi. Si consideri che, stando all’ultimo rapporto SVIMEZ, il sommerso è in crescita, particolarmente nel Mezzogiorno e particolarmente nelle aree più deboli, in primo luogo in Calabria dove il 32% della forza lavoro è irregolare. L’esercito dei lavoratori in nero italiani conta 3,3 milioni di persone, un valore che non muta sensibilmente da almeno un triennio, nonostante l’alternarsi di provvedimenti legislativi che, nel periodo considerato (in larga misura coincidente con la stagione del Governo Prodi), hanno previsto un inasprimento delle sanzioni.
Non può sfuggire, infatti, che le sanzioni sono, per così dire, asimmetriche, ovvero colpiscono in misura diversa soggetti con differente potere contrattuale. In tal senso, esse possono produrre effetti perversi. Nella fase attuale dello sviluppo capitalistico, il potere contrattuale delle imprese, nei confronti dei lavoratori, del sistema bancario, del Governo, dipende in misura rilevante dalla loro mobilità internazionale. Appare, dunque, evidente che meccanismi di sanzionamento indifferenziati, che cioè colpiscono tutte le imprese allo stesso modo, corrono il rischio di penalizzare maggiormente (o esclusivamente) quelle imprese che – data la loro struttura organizzativa e le loro dimensioni – non sono in grado di delocalizzare a fronte di interventi di policy che ledono potenzialmente i loro interessi. Ed è noto che questa tipologia di impresa è maggiormente localizzata nel Mezzogiorno. Da cui: la maggiore incidenza di attività irregolari nel Sud del Paese – lungi dal dipendere da un fatto antropologico – è strettamente connessa ai più bassi salari, alla maggiore disoccupazione, al minor potere contrattuale delle imprese meridionali nei confronti dell’autorità politica e, non da ultimo, al loro peggiore standard di moralità, che, in ultima analisi, è esattamente il prodotto delle peggiori condizioni nelle quali si trovano a operare rispetto alle loro concorrenti del Nord. Il sanzionamento delle attività irregolari contribuisce, in definitiva, a ridistribuire reddito a vantaggio delle aree più forti, dove sono localizzate le imprese più mobili su scala internazionale.
Vi è di più. Se il degrado degli standard di moralità ha cause economiche, queste stesse cause producono effetti perversi e, in larga misura, irreversibili sulle dinamiche del mercato del lavoro delle aree marginali dello sviluppo capitalistico, secondo una sequenza che partendo dalla compressione dei salari va avanti con la riduzione di ciò che viene definito il capitale sociale (e, dunque, il rispetto delle norme morali dominanti) e si chiude con la riduzione del tasso di crescita. Quest’ultimo effetto – come diffusamente documentato sul piano teorico ed empirico - è una conseguenza inevitabile del deterioramento dell’etica pubblica. Non c’è dunque da stupirsi se le politiche di bassi salari e di peggioramento delle condizioni di lavoro sono pagate dal patologico affollamento delle carceri e dall’aumento dei costi di repressione del conflitto, in qualunque modo quest’ultimo si manifesti.
Guglielmo Forges Davanzati
(Università del Salento)
Il caso dell’economia sommersa è senz’altro emblematico. Un’ampia letteratura empirica documenta che le dimensioni del sommerso crescono al crescere del tasso di disoccupazione e aumentano nelle fasi recessive. Vi sono senza dubbio aspetti di stretta rilevanza economica che spiegano questo fenomeno, ma non appare irrilevante la considerazione che, poiché nelle fasi recessive, i profitti tendono a ridursi e si riducono i salari reali, aumenta contestualmente la domanda di lavoro nero e la sua offerta, e che ciò accade anche per l’indebolirsi dei vincoli etici da parte di imprese e lavoratori conseguente al loro impoverimento.
Se la risposta neoliberista consiste nel ritenere il sommerso un segno di ‘vivacità imprenditoriale’, in quanto tale da tollerare in attesa della sua spontanea regolarizzazione, le azioni di contrasto basate sul sanzionamento – pur messe in atto in Italia con alterne vicende da almeno un decennio - non hanno prodotto effetti significativi. Si consideri che, stando all’ultimo rapporto SVIMEZ, il sommerso è in crescita, particolarmente nel Mezzogiorno e particolarmente nelle aree più deboli, in primo luogo in Calabria dove il 32% della forza lavoro è irregolare. L’esercito dei lavoratori in nero italiani conta 3,3 milioni di persone, un valore che non muta sensibilmente da almeno un triennio, nonostante l’alternarsi di provvedimenti legislativi che, nel periodo considerato (in larga misura coincidente con la stagione del Governo Prodi), hanno previsto un inasprimento delle sanzioni.
Non può sfuggire, infatti, che le sanzioni sono, per così dire, asimmetriche, ovvero colpiscono in misura diversa soggetti con differente potere contrattuale. In tal senso, esse possono produrre effetti perversi. Nella fase attuale dello sviluppo capitalistico, il potere contrattuale delle imprese, nei confronti dei lavoratori, del sistema bancario, del Governo, dipende in misura rilevante dalla loro mobilità internazionale. Appare, dunque, evidente che meccanismi di sanzionamento indifferenziati, che cioè colpiscono tutte le imprese allo stesso modo, corrono il rischio di penalizzare maggiormente (o esclusivamente) quelle imprese che – data la loro struttura organizzativa e le loro dimensioni – non sono in grado di delocalizzare a fronte di interventi di policy che ledono potenzialmente i loro interessi. Ed è noto che questa tipologia di impresa è maggiormente localizzata nel Mezzogiorno. Da cui: la maggiore incidenza di attività irregolari nel Sud del Paese – lungi dal dipendere da un fatto antropologico – è strettamente connessa ai più bassi salari, alla maggiore disoccupazione, al minor potere contrattuale delle imprese meridionali nei confronti dell’autorità politica e, non da ultimo, al loro peggiore standard di moralità, che, in ultima analisi, è esattamente il prodotto delle peggiori condizioni nelle quali si trovano a operare rispetto alle loro concorrenti del Nord. Il sanzionamento delle attività irregolari contribuisce, in definitiva, a ridistribuire reddito a vantaggio delle aree più forti, dove sono localizzate le imprese più mobili su scala internazionale.
Vi è di più. Se il degrado degli standard di moralità ha cause economiche, queste stesse cause producono effetti perversi e, in larga misura, irreversibili sulle dinamiche del mercato del lavoro delle aree marginali dello sviluppo capitalistico, secondo una sequenza che partendo dalla compressione dei salari va avanti con la riduzione di ciò che viene definito il capitale sociale (e, dunque, il rispetto delle norme morali dominanti) e si chiude con la riduzione del tasso di crescita. Quest’ultimo effetto – come diffusamente documentato sul piano teorico ed empirico - è una conseguenza inevitabile del deterioramento dell’etica pubblica. Non c’è dunque da stupirsi se le politiche di bassi salari e di peggioramento delle condizioni di lavoro sono pagate dal patologico affollamento delle carceri e dall’aumento dei costi di repressione del conflitto, in qualunque modo quest’ultimo si manifesti.
Guglielmo Forges Davanzati
(Università del Salento)
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