La valutazione dei fatti risente sempre, evidentemente, di almeno due punti di vista: uno dall'esterno e un altro dall'interno. Il problema è dover accettare che quello dall'esterno, autoreferenziale e miope, sia quello che conta, quello decisivo e l'altro, quello dall'interno, limpido e libero, sia invece impotente. Nel caso della riforma scolastica dal ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca si dichiara che si tratta di una riforma epocale, la prima dopo la riforma Gentile. Che affermazione! Questo richiamo, volutamente enfatico, ci preoccupa non poco (Mussolini definì la riforma Gentile la più fascista delle riforme fasciste, basti questo), ma è anche falso per una serie di motivi; intanto le riforme ci sono state, e in gran quantità, dal '23 a oggi; tutte, qualcuno chiosa, sperimentazioni. Sì, ma stabili sperimentazioni, ci siamo abituati, fino alla successiva o, più correttamente, fino al successivo ministro. Falso anche perchè non ci sembra di leggere delle autentiche novità nel decreto legislativo; non c'è quello di cui si avverte l'esigenza: rigore, competenza, regole certe, unica strada verso un cambiamento che, se ci sarà, non potrà che essere graduale e in relazione al processo di mutamento socio-politico fisiologicamente legato, a sua volta, al mutare dei tempi ( per capirci: quando si è toccato il fondo, non resta che risalire, è la legge di gravità). Non basta che il ministro, dal suo pulpito, dica suadente e risoluta che è tempo di meritocrazia, di rivalutazione della qualità perché le scuole italiane si riempiano di alunni meritevoli e di qualità, invertendo la rotta dalle acque perigliose che l'OCSE segnala. D'altra parte c'è una grave contraddizione tra la pur legittima e condivisissima aspirazione ad avere una scuola migliore e la strutturazione stessa che si vuole dare alla scuola come azienda; si parla in termini di offerta formativa, di fatturato, di premi di produzione, di alunni/clienti; e si dice anche: la scuola deve recuperare autorevolezza, la scuola migliore è quella che boccia di meno, se il numero di studenti cala ci tagliano i fondi; appare inevitabile che, se la logica commerciale governa la scuola, allora l'alunno/ cliente abbia sempre ragione e qualche conto non torni.
Uno in particolare: dov'è la scuola?
Quali sono, dunque, i tanto millantati ed esibiti cambiamenti? Sembra a me nella verniciatura della facciata, ma letteralmente dico, molti istituti dovranno sostituire la targa sul prospetto: l'istituto magistrale diventa liceo delle scienze umane; il liceo musicale diventa liceo coreutico, il liceo scientifico liceo scientifico -tecnologico. Vengono ridotte le ore d'insegnamento del latino, della filosofia, aumentano quelle di matematica ma la cattedra comprende anche l'informatica, la quale dovrebbe diventare centrale nella formazione scolastica, invece in molti indirizzi di studio è scomparsa. Misteri della logica!
Si legge nel decreto: l'orario settimanale passerà dalle 36 ore virtuali, con l'ora di lezione ridotta, a 32 effettive con l'ora di sessanta minuti. Bene: al di là dell'errore piuttosto squallido di misurare la mia capacità di trasmettere sapere e saperi cronometrandomi, lo sa la ministra (lo sa, lo sa...) che i disagi degli studenti pendolari finiranno col consentire agli istituti, in ragione dell'autonomia, di ridursi l'orario? (siamo e rimarremo fannulloni; se ne faccia una ragione, ministro Brunetta)
Si legge inoltre: con la riforma sarà finalmente introdotto nei licei classici l’insegnamento di una lingua straniera per l’intero quinquennio. Non è così, c'è sin dalla riforma Berlinguer, nei corsi sperimentali.
E ancora: nel liceo scientifico, l’opzione scientifico -tecnologica consentirà l’approfondimento della conoscenza di concetti, principi e teorie scientifiche e di processi tecnologici, anche attraverso esemplificazioni operative. Devo proprio riconoscere che il mio paese è all'avanguardia, perché da tempo il liceo scientifico e il mio istituto sono dotati con funzioni operative, naturalmente, di laboratori di chimica, fisica, informatica etc.
Il liceo musicale e coreutico sarebbe la vera novità della riforma. Non cambia, al di là del nome di molto effetto, assolutamente niente, leggere per credere. Altra novità della riforma è il liceo delle scienze umane-continua il Ministero- il quale sostituisce il liceo sociopsicopedagogico portando a regime le sperimentazioni avviate negli anni scorsi. Finalmente si dicono le cose come sono: la nuova riforma non è altro che la vecchia sperimentazione portata a regime.
Sempre dal testo del decreto - nuove articolazioni del collegio dei docenti:
costituzione in ogni scuola di dipartimenti disciplinari, che riuniscono i docenti di uno stesso ambito disciplinare, per sostenere la didattica, la ricerca, la progettazione dei percorsi; costituzione di un comitato scientifico composto paritariamente da docenti ed esperti del mondo della cultura e del lavoro.
Dipartimenti disciplinari e comitato scientifico non ledono comunque la sovranità del collegio. Nessuna novità: dipartimenti e comitati esistono da moltissimi anni; c'è la mia firma su un verbale stilato poche ore fa in dipartimento.
La nota ministeriale conclude: sarà valorizzata la qualità degli insegnamenti piuttosto che la quantità delle materie. Ecco la vera, l'unica verità, l'unica riforma: i tagli. Alla Scuola e all' Università la finanziaria ha sottratto 12.000.000.000 di euro e oltre 25.000 posti di lavoro. Significa che, non si sa con quale criterio fantasioso, riducendo di fatto le ore di latino, quelle di filosofia, raggruppando le ore di storia e geografia (sembrerebbe a tutto vantaggio di un sapere tecnologico), tagliando qua e là, pur continuando a blaterare di autonomia, poi, però, si persegua un disegno centralista nel riordinare i curricula di studio e, peggio, si produca disoccupazione e precariato. Mi pare, insomma, che, vista nel complesso, questa riforma obbedisca più a una logica dei tagli finanziari che alla volontà autentica di valorizzare l’istruzione superiore in Italia.
E nell'Università non va meglio.
La riflessione sugli effetti della riforma Gelmini nell'Università è di Maria Mancarella docente di Sociologia presso l'Università del Salento
-Il criterio di revisione del sistema universitario italiano che ha ispirato le scelte del ministro Gelmini risponde esclusivamente a logiche economiche (riduzione dei fondi, eliminazione del tetto massimo previsto per la definizione delle tasse universitarie, che potranno pertanto aumentare senza limiti) e di restaurazione di un sistema di potere verticistico e centrale che vedrà nuovamente le lobby dei baroni appartenenti alle scuole più forti e potenti riprendere in mano la gestione nazionale di tutto il sistema universitario, sia in termini di cooptazione della docenza che di destinazione delle risorse economiche destinate alla ricerca.
Il nuovo sistema di reclutamento, basato su commissioni composte solo da ordinari e sorteggiate all’interno di una lista unica eletta su base nazionale per un numero triplo dei membri richiesti, da una parte rende difficile la composizione stessa delle commissioni (alcuni settori disciplinari hanno un numero contenuto di ordinari) e dall’altra lascia comunque intatto il criterio della cooptazione, aumentandone solo il numero. In realtà le logiche di potere che si dice di voler abbattere hanno impedito di eliminare completamente la fase della elezione, lasciando il sorteggio puro.
La scelta dei vincitori passerà pertanto nelle mani dei gruppi accademici prevalenti a livello nazionale, ma continuerà a seguire le logiche clientelari che si dice di voler eliminare.
Il potere, distribuito tra le diverse categorie di docenti e reso accessibile anche alle sedi periferiche, torna nelle mani di pochi che, sicuramente con saggezza e onestà (sic), sapranno gestirlo per il bene di tutti.
La distribuzione dei fondi sarà effettuata sulla base di una valutazione d’ateneo i cui criteri sono astratti e, nella loro genericità, favoriscono le sedi universitarie forti, feudo di baroni importanti in grado di offrire a se stessi e ai loro allievi l’accesso a risorse consistenti per la ricerca, i cui risultati vengono pubblicati su riviste di rilievo internazionale, generando un circolo virtuoso che cresce su stesso e esclude sedi e ricercatori periferici che rimangono intrappolati in un circolo vizioso dal quale è difficile uscire.
Anche i risultati ottenuti dalle diverse sedi in termini di iscritti, laureati e fuori corso e di laureati che nell’arco dei 3 anni successivi alla laurea trovano lavoro non tiene conto delle differenze legate ai singoli contesti e alle loro peculiarità, finendo per penalizzare ancora una volta le sedi periferiche, soprattutto quelle meridionali, come è successo per l’università del Salento ma anche per università prestigiose come la Federico II di Napoli.
Laureare tutti e in fretta, eliminare i corsi di laurea con pochi studenti (molti corsi di laurea in filosofia dovrebbero essere chiusi) significa invece mortificare la qualità a scapito della quantità, costringere gli studenti ad iscriversi in università lontane da casa, impedendo di fatto a tutti coloro che non ne hanno i mezzi l’accesso alla cultura e all’istruzione superiore. -