Katyn. La storia si fa giustizia da sé di Tony Tundo
Katyn come Auschwitz, pulizia etnica e pulizia di classe: non c’è differenza tra i totalitarismi. In Unione Sovietica per sessant’anni si conosceva, vagamente e certo non dai libri di scuola, la storia del massacro di Katyn, ma come storia di un altro massacro nazista, per il resto del mondo Katyn non esisteva neppure; d’altra parte è la storia della Polonia vittima più di altri Paesi dell’ “alterna onnipotenza dell’umana sorte”. Poi si comincia a parlare di un ritrovamento fatto da un gruppo di ragazzini, che giocavano in un campo non lontano dalla foresta di Katyn, di poveri resti: uniformi, stemmi e monete polacche, altro. In seguito con Gorbaciov le prime ammissioni miste a tante menzogne. La Germania, con la Merkel, è stata più onesta nell’ammissione delle responsabilità tedesche (tra gli alleati c’era stato un costante scambio di prigionieri tra gulag e lager), invece i documenti russi sono rimasti a lungo in archivi segreti. Medvedev ha spesso ammesso la natura criminale dello stalinismo, non certo senza retorica. Perfino un film del 2009 sull'eccidio brutale - e sulla logica folle che lo decise - dei ventiduemila ufficiali e civili polacchi è passato, per i più, sotto silenzio. Ne hanno parlato le più importanti testate, ma dovrebbe proiettarsi nelle scuole insieme alla Masseria delle allodole dei fratelli Taviani, quest'ultimo sul genocidio degli Armeni.
Qualche volta, per fortuna, i maestri del cinema riempiono i vuoti degli storici.
Invece in particolare i ragazzi devono sapere, perché accade sempre nello studio della seconda guerra mondiale che il giudizio storico passi attraverso un'unilaterale oltre che manichea valutazione - è accaduto a noi da studenti - dei fatti e dei protagonisti della pagina più atroce della storia umana: Stalin ( il bene) che annienta Hitler (il male). La verità è un’altra, naturalmente: le ideologie, pur se diverse, sono speculari, è il totalitarismo il Male assoluto. Ma la storia trova la sua nemesi, non va manipolata la storia, perché si farà giustizia da sé: oggi, dopo la strage aerea di Smolensk nessuno più ignorerà Katyn.
E' molto interessante la recensione del film di Wajda che riporto, è di Roberto Escobar da Il Sole-24 Ore 12 aprile 2009
La verità su Katyn
Andrzej Wajda rivisita la strage del 1939, a lungo imputata ai nazisti, svelando le falsità russe e ricordando il padre finito nelle fosse comuni.
I colpi di pistola si sommano ai colpi di pistola, nell'ultima sequenza di Katyn (Polonia, 2007, 118'). Condotti a uno a uno in una piccola stanza lorda di sangue, oppure a uno a uno tenuti sull'orlo di una buca scavata tra gli alberi, gli ufficiali e i sottufficiali dell'esercito polacco ricevono una pallottola nella nuca. E a uno a uno, di nuovo, i loro boia russi li gettano nella fossa comune, o li mettono su uno scivolo da cui cadono dentro camionette che partono verso il fitto del bosco. È il marzo del 1940. Da sei mesi la Polonia è stata invasa: dai nazisti a ovest, dai sovietici a est. L'anno seguente, marciando verso Mosca, l'esercito di Adolf Hitler dissotterra quei corpi, oltre 20mila, e se ne serve per la propaganda. Un vescovo polacco provvede a benedire l'invasore come salvatore del suo popolo. Poi, nel 1943, tornano le armate di Stalin, dirette a Berlino. Di nuovo i corpi sono dissotterrati, di nuovo il nemico viene indicato come truce sterminatore, e di nuovo qualcuno benedice l'invasore, non più quello nazista, ma quello per così dire simmetrico.
Appunto con questa "simmetria" inizia il film di Andrzej Wajda e dei suoi cosceneggiatori Andrzej Mularkczyk, Przemyslaw Nowakowski e Wladyslaw Pasikowski. È il 17 settembre 1939, e su un ponte che sta da qualche parte in Polonia si incontrano e si separano due colonne di uomini e donne in fuga. C'è chi corre via dai nazisti, non sapendo che va a consegnarsi ai sovietici, e chi corre via dai sovietici, ma solo per cadere nelle mani dei nazisti. Non c'è salvezza, per il popolo che quelli e questi si sono spartiti con il patto firmato il 23 agosto da Vjaceslav Molotov e Joachim von Ribbentrop. E simmetrico, ancora, è quel che Hitler e Stalin ordinano alle loro polizie: la distruzione sistematica dell'anima della nazione polacca, che si tratti delle sue università o che si tratti delle sue classi dirigenti. Anche per questo, ossia per disfarsi di avvocati, ingegneri, professionisti, i sovietici preparano ed eseguono l'eccidio di Katyn, imputandolo poi ai tedeschi con la sostanziale indifferenza degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Solo la glasnost di Michail Gorbacëv inizia a far luce sulla menzogna (sulla trista questione si può leggere Victor Zaslavsky, Pulizia di classe. Il massacro di Katyn, pubblicato nel 2006 da Il Mulino).
Nelle fosse comuni sovietiche morì il padre di Wajda, allora ufficiale dell'esercito polacco. Anche come figlio, dunque, ora il regista ottantaduenne racconta quei fatti. E lo fa senza insistere sulla morte fisica, senza sommare sangue a sangue, se non nell'ultima sequenza. Per il resto, sembra avere un modello narrativo grande e straziante come quello dell'Antigone. Al pari di quel che accade nella tragedia di Sofocle, l'universo appare diviso fra il potere che uccide e la fede che ha pietà, e che si prende cura. Per fede non si deve intendere una religione, ma una fedeltà all'amore e alla memoria, oltre che a una giustizia che non si piega al diritto della forza.
Ancora come in Antigone, sono le donne le portatrici di questa fedeltà: le madri, le mogli, le sorelle dei morti. Attorno a loro tutto sembra pretendere una nuova, immemore normalità. La guerra è finita. Le classi dirigenti sono cambiate. La potenza sovietica ha stabilito il suo diritto, e anche la sua memoria e la sua Storia. Sembra alla gran maggioranza che convenga adeguarsi. Tra i migliori c'è anche la certezza che così si debba fare, se si vuole ottenere il massimo della giustizia e della libertà "possibili". Qualcuno cade sotto il peso della propria coscienza. Ma per i più il passato è sepolto, insieme con i corpi di Katyn.
Così non è per le donne di cui Wajda segue le storie. In loro la pietà non s'acquieta. Di una soprattutto il film racconta il coraggio. Ha combattuto nell'esercito popolare contro i nazisti, ma ora non accetta la menzogna del nuovo regime. Non lo può fare perché il corpo del fratello, ucciso a Katyn, le chiede quello che in Sofocle il corpo di Polinice chiede ad Antigone: d'esser sepolto, contro le leggi di qualunque Creonte. E come la fanciulla di Tebe ricopre di polvere Polinice morto, così lei pretende di deporre sulla tomba del fratello la verità scritta nel marmo. Pagherà, per questa sua pietà che non dimentica, e scenderà nel buio di una prigione come Antigone nella tomba. È questo il momento culminante di Katyn, quello in cui la memoria ritrovata cerca una giustizia impossibile. Per il resto, dal passato non vengono che i colpi di pistola dei boia, sparati con metodo e indifferenza. Morto dopo morto, i corpi s'ammassano. Nessun grido ne viene, nessuna voce, ma solo il rumore sordo della terra che cade e li ricopre.