Manovra fiscale. Perché il Sud paga i costi più alti
di Guglielmo Forges Davanzati
La manovra finanziaria predisposta dal Ministero dell’Economia comporterà minori spese per un ammontare complessivo di circa 24 miliardi di euro, accentuando una linea di rigore finanziario che i Governi italiani degli ultimi decenni, con intensità variabile, hanno tenacemente perseguito, l’obiettivo di portare il rapporto deficit/PIL dall’attuale 5% al 2.7% nel 2012. Si badi che il rigore finanziario non è affatto un bene in sé, e tantomeno un male necessario, come viene diffusamente sostenuto. La linea del rigore finanziario non è altro che una linea che si usa definire di “lacrime e sangue”, ovvero di sacrifici – in termini di minori servizi pubblici e/o maggiore imposizione fiscale – che vengono chiesti ai cittadini e, in particolare, ai percettori di redditi più bassi, ai lavoratori dipendenti, ai pensionati. E’ opportuno premettere che questa manovra è sostanzialmente imposta dall’Unione europea ed è pensata, in quella sede, per scongiurare possibili effetti di contagio sull’economia italiana della crisi greca. In altri termini, si ritiene che solo contenendo l’espansione del debito pubblico l’Italia può evitare di incorrere in attacchi speculativi di entità rilevante, e tali da prefigurare ulteriori problemi per la tenuta stessa del progetto di unificazione monetaria europea. Occorre rilevare che non si tratta di una tesi ‘neutrale’ e che, proprio per questa ragione, è essa stessa suscettibile di una critica radicale, che si può porre in questi termini. Si parta dalla constatazione che l’oggetto del contendere non è l’elevato volume del debito pubblico, ma un rapporto giudicato eccessivamente alto fra debito pubblico e prodotto interno lordo. In tal senso, seppure si accoglie la tesi stando alla quale gli attacchi speculativi sono determinati in ultima istanza da un rapporto debito pubblico/PIL che gli speculatori giudicano eccessivo, da ciò non segue necessariamente che la terapia debba consistere nella riduzione del numeratore. E’ ampiamente dimostrato, e per molti aspetti è intuitivo, che l’aumento della spesa pubblica accrescere il prodotto interno lordo, per il tramite di un aumento dell’occupazione e della produzione, e che dunque si può ridurre il rapporto debito pubblico/PIL accrescendo la spesa pubblica. Non è tuttavia questa la strada che si intende percorrere. E non lo è per almeno due ragioni. In primo luogo, l’assetto istituzionale europeo è fondato su un’impostazione teorica di matrice liberista, stando alla quale lo Stato è il problema e l’intervento pubblico in economia è solo fonte di inefficienze e di distorsione dei meccanismi di allocazione delle risorse che si suppone il mercato sia in grado di realizzare in modo ottimale. In secondo luogo, e sul piano degli interessi materiali, l’aumento della spesa pubblica è vista, di norma, dalle imprese come un freno alla crescita dei loro profitti, dal momento che, associandosi a un aumento dell’occupazione, accresce il potere contrattuale dei lavoratori e conseguentemente i salari. Per quanto specificamente attiene alla manovra finanziaria italiana, i provvedimenti in esame sono molteplici e, fra questi, il blocco del turnover nella pubblica amministrazione, il rinvio dei rinnovi dei contratti pubblici e il taglio di tredicimila miliardi euro agli Enti locali sono quelli che fanno maggiormente discutere. Si tratta di provvedimenti molto discutibili, non solo per ragioni di equità distributiva e di coesione sociale, ma anche per il raggiungimento dei fini che ci si propone. Non si tratta cioè semplicemente di rivendicare l’inaccettabilità di misure che scaricano i costi della crisi (ammesso che di questo si tratti) sui ceti più poveri: il che è indiscutibilmente vero, ma attiene ad argomentazioni non strettamente economiche. La critica si pone in questi termini: la riduzione del reddito disponibile comporta – a parità di aliquote d’imposta – una riduzione del gettito fiscale. A sua volta, e per conseguenza, la riduzione del gettito amplifica il problema della sostenibilità dei conti pubblici, prefigurando un percorso vizioso di ulteriori riduzioni di spesa finalizzate a compensare la perdita di entrate fiscali. Questo effetto è evidentemente ben chiaro ai tecnici del Ministero dell’Economia, dal momento che i provvedimenti in discussione sono associati a politiche finalizzate al contrasto all’evasione fiscale. Qui si pone un problema, che è sì strutturale per l’economia italiana, ma che l’attuale Governo non ha saputo fin qui fronteggiare. E’ opportuno preliminarmente chiarire che i dati sull’evasione fiscale sono lacunosi. Ad oggi, si dispone delle stime dell’ufficio studi dell’Agenzia delle Entrate sull’evasione dell’Iva (dal 1982 al 2004) e dell’Irap (dal 1998 al 2002), e di quelle dell’Istat sul sommerso economico (fino al 2006, ma con una rottura nella serie dal 2000). Per l’ultimo biennio, è stato stimato (rapportando il gettito netto dell’IVA ai consumi delle famiglie), che l’evasione fiscale è aumentata di oltre un punto percentuale e, fra gli addetti ai lavori, è diffusa la convinzione che questo Governo non sia riuscito a fronteggiare il problema, sebbene si possa riconoscere che il fenomeno è anche imputabile alla crisi in corso. Vi è dunque motivo di dubitare del fatto che la lotta all’evasione fiscale riesca a compensare la riduzione di gettito conseguente alla caduta del reddito disponibile del lavoro dipendente. Si noti, non incidentalmente, che il taglio agli Enti locali non può che peggiorare il quadro macroeconomico, se non altro perché contribuisce, con l’ennesimo provvedimento in tal senso, ad accentuare i dualismi regionali, penalizzando ulteriormente le Regioni meridionali. Per le quali non si prevede alcun intervento finalizzato alla crescita, ma, ancora una volta, solo sottrazione di risorse. E’ piuttosto ovvio associare questa manovra all’aumento delle tariffe dei servizi locali (si pensi alle mense o ai trasporti), con maggior danno per le aree più povere e per i percettori di redditi bassi in quelle aree, ovvero di coloro che maggiormente si fruiscono di tali servizi. Il tutto, ci viene detto, per pagare i costi della crisi; crisi rispetto alla quale le popolazioni del Sud d’Italia non hanno certamente alcuna responsabilità.
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