sabato 9 ottobre 2010

La sanità malata: codice rosso
di Tony Tundo
La normalità della nostra vita quotidiana è una condizione permanente di emergenze fino all'assuefazione, ma a quella sanitaria nessuno può essere indifferente:
negli ospedali muoiono ogni giorno qualcosa come 100 ricoverati, 35.000 l’anno nell’intero Paese, nel meridione e nel settentrione - in questo uniti - e son solo statistiche approssimative. Io penso che il problema della mala-sanità sia un problema di mal-educazione. Si poteva prevedere senza alcuna sfera di cristallo, bastava osservare cosa stava accadendo della scuola, nella scuola dove rigore e metodo sono strumenti e obiettivi superati, dove governano gli interessi economici camuffati in un vestito buono, la scuola da modello sociale a preda delle mode. I ragazzi, spesso inconsapevoli, prestano il fianco travolti dalla fiumana del nulla; se ci sono, e ci sono, dirigenti liberi, insegnanti appassionati, giovani concentrati su precisi obiettivi sono isole felici. Poche! Il resto lo fa l'università. E tutto ha inizio là, sui banchi di scuola, nelle aule affollate degli atenei. Parlo di quell’emergenza educativa che ha avuto origine probabilmente intorno agli anni 80 e che sta dando i suoi primi frutti, naturalmente marci; non voglio fare la cassandra, ma non oso pensare al futuro che ci aspetta. Leggo di ricette scorrette, perciò indecifrabili (lingua italiana, questa sconosciuta...), di superficialità nella diagnosi spesso affidata all’intuito e non alla conoscenza della letteratura medica, un obbligo per un medico specialista, di difetti delle strumentazioni o del loro utilizzo sbagliato, di negligenza o, pazzesco e davvero incomprensibile, di risse in sala operatoria in presenza del paziente intubato e anestetizzato. E’ così che un parto, un’appendicectomia, una cisti, una frattura anche banale diventano codice rosso. Pare che in altri Paesi, non immuni dalla stessa crisi, equipes di ricercatori stiano studiando le cause di quest’allarme – non si può chiamarlo diversamente – e mi chiedo se da noi si faccia altro se non aprire indagini interne o giudiziarie, prendere provvedimenti amministrativi, sospendere o licenziare i medici responsabili. Forse non si fa neppure tanto e, comunque, ci può bastare? Può rassicurarci? Non è più utile cercare le radici di questa nuova barbarie? Anni fa, molti anni fa, la malattia faceva obiettivamente più paura perché la ricerca era lenta quando non ostacolata, né c’era informazione, ora siamo tutti maggiormente attenti, gli orizzonti della ricerca si allargano, eppure si rischia di morire per un’infezione, per una diagnosi frettolosa elaborata sulla base di Dio sa quali percorsi cognitivi, certo semplici e sbrigativi, quelli che risparmiano tempo, ragionamenti e calcoli. Se a questo aggiungi strutture inadeguate, strumentazioni obsolete, fame di carriera e denaro, inevitabile stress il cocktail si fa micidiale. E’ una questione di etica della responsabilità, la professione del medico non ne può essere priva, ma oggi è merce rara; penso al vecchio medico di famiglia, conosceva la storia clinica di ogni suo paziente, uno per uno, una figura rassicurante, uno di famiglia, ottimo diagnosta che sapeva coniugare cultura umanistica e scientifica, etica ed epistemologia, un po' tuttologo, conosceva le patologie di tutti gli organi del corpo umano - che la parcellizzazione del sapere medico stia mostrando i suoi limiti? - sapeva porre al centro la persona malata con la sua storia e il suo contesto di vita.
Altri tempi…
La vera emergenza, madre di tutte le altre, oggi, è un’emergenza culturale, è ovunque intorno a noi, ma qui parliamo di diritto alla salute.