venerdì 21 gennaio 2011

Berlusconi peggio del fascismo? Una lettura "impolitica" della crisi italiana


di Aldo Cormio [pubblicato su questo blog il 15 ottobre 2008]


Di recente Asor Rosa volendo anche sferzare una opposizione complice o dispersa a dimostrare se ancora esiste, ha espresso un giudizio sugli inquietanti primi segnali di questa legislatura, che ha naturalmente provocato reazioni indignate o equivoci di comodo nella stampa di regime: “Il terzo Governo Berlusconi – ha scritto perentoriamente – rappresenta senza ombra di dubbio il punto più basso nella storia d’Italia dall’Unità in poi”. Quindi ha aggiunto il passaggio decisivo: “Più del fascismo? Inclino a pensarlo”. E ha motivato l’affermazione sostenendo che, se il fascismo “con tutta la sua negatività” rappresentò comunque una via d’uscita (che ai partiti popolari di massa appena costituitisi non riuscì di cogliere) alla crisi estrema del sistema liberale postunitario, “Berlusconi non è che il prodotto finale e consequenziale di una lunga decadenza, quella del sistema liberaldemocratico”, che dagli anni ’80 avrebbe investito profondamente con la sue pratiche corruttive il “pianeta Italia”. E ora minaccerebbe di travolgerlo perché, “man mano che l’Italia degrada”, il berlusconismo, che del degrado si nutre, si espande sempre più.

È un giudizio senz’altro ardito, come ogni paragone storico in qualche modo improprio, ma illuminante. Perché ci invita a riflettere che i risultati nella sostanza non cambiano se, come oggi è tecnicamente possibile, l’autoreferenzialità di un sistema – la teoria dei sistemi ce lo insegna – può assicurare un dominio altrettanto totale, con forme di violenza certo meno crudeli ed evidenti, ma anche più gravi perché nascoste o subdole. Interrogativi non secondari sollevano invece i tre obiettivi principali che Asor Rosa suggerisce ai partiti d’opposizione perché attingono, senza un severo vaglio critico, al patrimonio corrente della cultura di sinistra, come se non si fosse mai data la disfatta con cui si è chiuso il “secolo breve”:
1) Riforma dello strumento “partito”. Occorrerebbe dar vita a una “rete [autorganizzata] di istanze e rappresentanze diverse, collegata strategicamente e non gerarchicamente, che assorba e rivitalizzi le vecchie forze piuttosto che viceversa”. D’accordo sulla necessità di riformare, ma come riuscire ad aderire in maniera più puntuale alle infinite pieghe della società senza pagare il prezzo di dar vita a uno strumento poco efficace perché incapace di portare a sintesi le istanze spesso irrinunciabili di ogni “nodo” della rete? Non sappiamo se mai il miracolo potrà darsi. I tentativi fatti sono finora falliti. Il crescente individualismo, una malattia che investe ormai anche la sinistra, non lascia ben sperare. Ma ci chiediamo, partito o rete o partito-rete, si può ancora pensare di affidare a un’organizzazione, quale che sia, una trasformazione radicale della società? Possiamo ignorare che ogni organizzazione, per quanto democratica e flessibile, parte già sacrificando i suoi stessi membri; che per allargare il consenso è spesso costretta a smentire i suoi stessi principi; che, quando finalmente giunge al potere trova solo un guscio vuoto, e mai senza ingaggiare uno scontro mortale riuscirà ad intaccare quell’autonomia del potere economico, che oggi è il solo potere reale? L’estraneità dell’uomo comune dalla politica non è casuale. Sta nella separatezza del “politico” dalla vita concreta degli uomini. Una separatezza che non si supera ottenendo “qualcosa”, attraverso uno “strumento” (il “partito”) che ci sovrasta dopo lotte alienanti, perché il valore morale di ogni conquista non sta nella “cosa”, ma nell’esserne protagonisti. Se “il motore intimo della storia dell’Occidente è stata l’affermazione e la ricerca dell’uomo” (Zambrano), il compito oggi è quello di inventare istituzioni che si facciano carico del destino dell’uomo, perché anche l’uomo comune si senta chiamato a dare tutto se stesso alle istituzioni. Il “partito”, qualunque sia la forma che ad esso si vorrà dare, è figlio comunque della separatezza del “politico”, lo presuppone come luogo del “potere”, è costretto necessariamente a sacrificare al principio della forza e all’interesse supremo della conquista del potere ogni suo principio. E perciò ha sempre fallito.
2) Per Asor Rosa non basta cambiare lo strumento politico. Oltre lo strumento, bisogna cambiare anche il modo di essere del fare politica in Italia. Occorre una “rivoluzione intellettuale e morale”, che ne cambi “i tempi, i modi, le forme, i valori”. Una “rivoluzione” – e come non si potrebbe convenire – indispensabile, ma sarebbe illusorio pensare che possa essere risolutiva del degrado in atto, se resta confinata alla coscienza. Per incidere davvero sui processi disgregativi, per ridare centralità e responsabilità all’uomo, la “rivoluzione” dovrebbe investire la natura stessa del “politico” moderno, ricongiungendolo nuovamente all’etica, come è sempre stato nella storia dell’Occidente fino a Machiavelli. Dovrebbe ricondurre il “potere” a configurarsi nuovamente come “autorità”, cioè come forza che non può ignorare il suo nesso stringente con la verità (Benveniste). Che può fondare la politica proprio perché la trascende. Che può contrastare ogni tentativo di disgregazione di una comunità, proprio perché è “religio”. Che può giustificare la forza solo per la sua funzione creatrice, oltre che promotrice dell’uomo e della società, chiamata com’è a contemperare “cielo e terra, alto e basso, collettivo e individuale, potere e diritto” (Preterossi).
3) Terza proposta. L’opposizione deve unificarsi attorno a una “forma molto radicale di riformismo”, che si espliciti in un programma preciso, capace finalmente di “comporre in un quadro unitario “questione sociale” e “questione ambientale”. Di fronte all’inconsistenza politica dell’opposizione, sarebbe questo obiettivo anche ambizioso, ma – ci chiediamo – sarebbe farmaco adeguato a venire a capo di una crisi che – a suo dire – potrebbe esitare in una “catastrofe”, oltre che economico-sociale, nazionale? Se questa – e conveniamo – è una possibilità concreta, allora forse c’è la necessità di indagarne le cause ben oltre il “ventennio berlusconiano”, di fare i conti – mai fatti – anzitutto con la sconfitta epocale della sinistra, per poterne salvaguardare – oltre ogni fedeltà ideologica – quel nucleo di verità umana, che ha mosso a lotte e sacrifici per oltre un secolo centinaia di milioni di vite.
Se davvero questa è una possibilità, è troppo poco pensare di fronteggiarla mescolando
il “rosso” al “verde”: dove peraltro trovare il punto di mediazione per “interessi” obiettivamente contrastanti, quando nessuno è disposto a trascendere il proprio “particolare”? E poi, è ancora possibile affrontare questa situazione solo con un “programma preciso”, seguendo una strada che ha sempre fallito, se ogni programma che non nasca dal vivo dell’esperienza sociale nella sua astrazione è comunque una forma di violenza sulla realtà, è un pensare al posto di altri, né riesce a sfuggire a schematismi ideologici? In realtà il “programma” è uno strumento di trasformazione della società che, tutto inscritto nel “politico” moderno, non può mai pretendere di violarlo, malgrado gli spazi aperti dalle democrazie europee (in particolare italiana) dopo la seconda guerra mondiale. Appartiene infatti a una sequenza partito/consenso/accesso alla decisione/riforma della società dall’alto, che pur proponendosi di portare nelle istituzioni attese e bisogni della società, non può smentire quel principio dello stato moderno per cui è nello stato che è concentrata tutta la forza attiva e la società non può che lasciarsi plasmare, senza poter mai mettere in discussione un rapporto che resta, comunque e sempre, di comando/ obbedienza. È una sequenza che va messa in discussione, ridando alla società quella autonomia goduta fino alla soglia della modernità, e che può essere recuperata sviluppando in maniera conseguente gli agganci già presenti, ma disattesi, nella Costituzione. Così non ci sarà più bisogno di “programmi”, così “il da farsi” sarà suggerito dalla concretezza dei problemi che la realtà solleverà, come frutto di una dialettica democratica tutta da riattivare, secondo nuovi assi culturali, della vita sociale, culturale, economica, lasciando allo stato quella necessaria funzione di suprema direzione e coordinazione della autonoma vitalità espressa dalla società.

Avendo la sinistra scelto di combattere il “nemico” con le sue stesse armi, non poteva che tradire gli ideali sbandierati e, ad ogni passo avanti, avvicinarsi a quella “catastrofe” che, in realtà, non fu che il “compimento” di una inevitabile, progressiva identificazione dei due blocchi, per il primato assoluto riconosciuto a quella tecnica, messa al servizio della infinita e mortale volontà di potenza contro il proprio nemico (Severino). Al di là degli incalcolabili costi umani, si è così disperso un patrimonio millenario di risorse culturali e morali, “altre” rispetto all’esistente, che avrebbe potuto costituire una leva per una alternativa, ma fu bruciato sull’altare di una modernizzazione così accelerata e violenta da provocare una “mutazione antropologica” (Pasolini).

In Italia, le conseguenze furono più gravi che altrove, perché qui più vasto, radicato e profondo era quel patrimonio millenario sul quale era fiorita all’inizio del secondo millennio quella civiltà italiana, così gelosa del suo valore, da lasciarsi travolgere dalla modernità trionfante (in paesi che dal nostro avevano appreso il nuovo alfabeto), pur di mantenere una misura umana al suo primato culturale, civile, morale, ma anche economico, da tutti riconosciuto fino all’inizio del ‘500. Il respiro universalistico della sua civiltà, pur perdendo di creatività e di vigore per l’altero isolamento in cui scelse di vivere il suo tramonto in quella distanza dal mondo moderno che si espresse in tutta la sua consapevolezza critica nell’opera di Vico, fu ragione per cui l’Italia si costituì in ritardo a stato unitario. Scelta obbligata questa, in un mondo già interdipendente, voluto da una minoranza, contro l’Italia profonda e la sua storia. Una resa. Che non a caso ci regalò l’Italietta del trasformismo e del fascismo. Solo nel secondo dopoguerra, quando fu sanata la frattura che aveva dato vita allo stato unitario e, con la costituzione della Repubblica democratica, il popolo italiano pote’ finalmente riconoscersi nelle istituzioni, sembrò che l’Italia potesse sperimentare un modo di stare nella modernità senza negare la sua storia. E l’originalità assoluta della nostra Costituzione, che volle riconnettersi per tanti versi più che al Risorgimento – come troppo retoricamente piace ripetere –, all’origine stessa della civiltà italiana, alla grande civiltà comunale, poteva rappresentare una svolta decisiva, per riprendere il filo di un rientro nella “Storia”, non mimetico e subalterno. Era questa senz’altro la speranza nutrita da Dossetti, da uno dei padri, forse il più prestigioso e influente, della Costituzione italiana. Ma era impresa troppo ardita e dirompente, perché forze poderose a livello nazionale, e soprattutto internazionale, non si coalizzassero per contrastare senza esclusione di colpi un’ipotesi di democrazia non inquadrabile in quella rigida divisione del mondo in blocchi contrapposti che fu stabilita a Yalta. Per la presenza in Italia del più grande partito comunista d’Occidente, la lotta, prima sotterranea poi aperta (dal ’69 all’89), assunse forme estreme. La legalità democratica fu costantemente violata e piani e iniziative, “volti a contrastare l’avversario sul fronte interno ed esterno” (come l’uso strumentale di una spesa pubblica senza vincoli di bilancio per comprare il consenso o l’alleanza con settori della “grande criminalità internazionale di sicura fede anticomunista”, fino al terrorismo nella fase più alta dello scontro), ne inquinarono la normale dialettica.
“Ci si scandalizza – ha scritto Severino – della gravità della corruzione della società italiana”, ma si dimentica che sono state proprio certe pratiche illegali ad aprire il “varco” a forme di corruzione per “vantaggi individuali”, poi divenute endemiche nel “sistema sociale […] uscito vittorioso dalla lotta contro il comunismo”. Tutto questo avveniva nel mentre il brusco passaggio dell’Italia da paese agricolo-industriale a paese industriale avanzato, provocava quella “mutazione antropologica” che fu la fine di un mondo, di quella “civiltà contadina” costitutiva per il suo cantore (Levi) il fondo “per cui l’Italia permane[va]”, e con esso la fine di valori condivisi forti, che rappresentavano un argine a quelle forme di carrierismo, d’indifferenza morale verso l’altro, di cinismo, di corruzione, che si generalizzeranno nei decenni seguenti per via di quel ripiegamento individualistico, premessa e conseguenza dello sviluppo di una società industriale avanzata. Si potrebbe concludere che fattori diversi convergevano negli stessi anni a rendere il paese molto più fragile ed esposto a processi degenerativi. Non a caso Dossetti, in un clima già deteriorato dalla guerra fredda, intravedendo già nel ’51 la degenerazione del sistema politico, cui la D.C. avrebbe condotto l’Italia, si dimise dal suo partito, persuaso che i problemi sociali rivelavano ormai “una crisi del sistema”, per cui le “soluzioni” sarebbero state “possibili solo radicalmente, fuori del sistema, e le situazioni superabili solo a lunghissima scadenza”.


Tra la fine dei ’70 e i primi anni ’80, le strategie di contrasto cominciano a dare i loro frutti. Il partito comunista prima fu costretto alla difensiva e poi alla resa quando sotto analoga “pressione” crollò l’impero sovietico. Non fu difficile allora, per abili strateghi, manovrare dall’alto, con la stessa “sapienza” mostrata negli anni del terrorismo, la farsa di “mani pulite” per affondare con plauso generale incosciente un sistema politico, consapevolmente corrotto da poderose forze oscure, certo per sventare una volta per sempre la minaccia comunista, ma ancor più per affondare – insieme – quel progetto originale e aperto di democrazia voluta dai padri costituenti. Il sacrificio di Moro fu il segnale dato a chi doveva intendere, che si era disposti a tutto e si poteva ormai passare al contrattacco.

La mutazione del sistema politico dopo “mani pulite” è stata radicale. La classe politica dal ’92 non “rappresenta”, “persuade”. Persuade i cittadini della inevitabilità di accettare le compatibilità di un “sistema” che funziona sempre più come una giungla (vedi crisi finanziaria in atto) e, con l’intensificarsi del processo di globalizzazione, è sempre più fuori controllo. La classe politica non si accredita più dal “basso”, ma dall’“alto”. E quanto più sarà persuasiva nella diffusione del “nuovo verbo”, tanto più avrà accesso alle risorse (pubbliche) necessarie a comprare il consenso. Così il cerchio corruttivo si chiude mentre la società, lasciata in balia di se stessa, tende a disintegrarsi nella lotta del “si salvi chi può” e a regolare ogni relazione sul principio dell’utilità e della forza. Così il “fatto” diventa “diritto” e tutti sono spinti a scavalcare chi è più in alto, fino a sperare di raggiungere la vetta, dove è seduto il più forte. Così la “moneta cattiva” scaccia la “buona”, nel mentre il ruolo dominante assunto dalla TV nella “(tra-) sformazione” del carattere nazionale fiacca ulteriormente le risorse morali del paese, soprattutto dei giovani. Stanno affacciandosi alla vita generazioni che non hanno anticorpi per difendersi dalla barbarie che monta dacché sono entrate in crisi tutte le istanze formative, anche quelle moderne (la scuola e il mondo della cultura soprattutto), travolte dall’unica oggi dominante, la TV. Siamo ormai ben oltre la “mutazione antropologica” lamentata da Pasolini. Allora si trattava ancora del passaggio da una forma (quella contadina) a un’altra forma di civiltà (quella industriale avanzata). Ora siamo di fronte a un processo crescente di deculturazione, che privandoci dello strumento, della “lingua” attraverso la quale ci orientiamo nel mondo e riusciamo a creare un mondo in cui riconoscerci (è questo il ruolo della cultura), ci disorienta perché non sappiamo più quale direzione dare a pulsioni di cui restiamo preda e che in qualsiasi momento possono esplodere anche selvaggiamente, a livello individuale (vedi inquietanti episodi di cronaca nera) o collettivo (razzismo). Un processo che comunque ci espone a un permanente senso di insicurezza nei confronti dell’altro: che genera paura ed esige di essere placato da politiche securitarie. Un processo inquietante perché, se la situazione si facesse drammatica, il paese potrebbe anche lasciarsi trascinare in qualche avventura, secondo alcuni fino alla messa in discussione della stessa unità dello stato.

Malgrado questi “segni” della storia dovrebbero spingere a risposte inedite, siamo molto lontani dal dare il giusto peso alla ricerca di linee di fuga che ci consentano di forzare la “gabbia d’acciaio” (Weber) che ci imprigiona. Prevale ancora la convinzione che per incidere sulla realtà, occorra prenderne atto. Che “Dio sia morto”, che l’uomo risulti “antiquato” (Anders), che il gioco politico da decenni sia truccato, non muove a cambiare strada. Eppure nel tempo della “fine della politica”, dovrebbe risultare evidente che essere “impolitici” è l’unico modo per cercare di ricreare quello spazio della politica che non c’è più, da quando l’agorà è diventata solo virtuale e perciò è finita nelle mani di un uomo solo. Per chiudere ogni possibilità di recupero delle forze democratiche è aperta dagli anni ’80 una crisi che nasce dalla volontà di ridefinire, dopo la vittoria conseguita in campo aperto, il patto costituzionale: volontà dissimulata dietro la contrapposizione di comodo vecchio/nuovo, per nascondere l’insuperabile lato cruento del “politico” moderno. La svolta seguita alla mutazione del sistema politico non poteva che aggravare tutti i problemi della società italiana, fino a mettere a nudo forme di “disfacimento sociale” che per la loro gravità rendono urgente, per le forze democratiche, politiche di sapiente ritessitura del “legame sociale” (Zagrebelsky). Ma su quali basi creare nuovo legame sociale? È questo un problema tecnico o la sua soluzione mette in discussione i fondamenti stessi dell’ordine esistente? È un problema maturato solo negli ultimi decenni o viene, nei suoi presupposti più remoti, da molto lontano? Come bucare un sistema che si presenta come insuperabilmente autoreferenziale?