venerdì 25 febbraio 2011









Come "Barche nel bosco"
di Tony Tundo

Oggi, nella pagina culturale del Corriere della Sera Cesare Segre, noto linguista, semiologo e filologo nonché docente emerito all’università di Pavia, segnala e commenta l’ultimo libro di Paola MastrocolaTogliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare” ponendo l’accento in particolare sulla terza parte del libro, quella più politicamente e culturalmente scorretta, dove l'autrice riflette e fa riflettere sull’asservimento della cultura umanistica alle competenze tecnologiche. E proprio questo è l’indirizzo che ha preso il sopravvento nelle nostre scuole di ogni ordine e grado, e poco importa che l’italiano sia scorretto, che i ragazzi – sono dati statistici ampiamente verificati – non siano in grado, i più, di costruire un periodo, che neanche si cimentino in una traduzione: è tutto pronto in rete. Tanto quello che conta è il diritto al “successo formativo” che si traduce in diplomi facili, lauree facili da esibire, incorniciati, alti sulle pareti di casa mentre sempre più in basso scende il livello culturale, con l’unica consolazione (!?) di essere in buona compagnia con molti altri paesi europei nell’ Internazionale dell’ignoranza. Nel suo libro la Mastrocola fa risalire l’origine, almeno temporale, della malattia della scuola a Don Milani e a Gianni Rodari (sarebbero solo suggestive le sue idee) e Segre sembra concordare con la sua tesi che è interessante soltanto sotto questo profilo: l’alto insegnamento di don Milani (non dimentichiamo la sua attenzione ai poveri, al loro diritto allo studio) e l’intuizione di far vivere ai più piccoli lo studio come un gioco, idea per certi versi rivoluzionaria di Rodari sono stati volutamente fraintesi e manipolati per ragioni politiche. Ma l’incipit dell’articolo di Segre pare come staccato dalla realtà, quando il professore dice: di questo libro si parlerà a lungo. Effettivamente dovrebbe essere, più che un libro, un manifesto se non anche il testo per una mozione parlamentare: c'è grido d'allarme e forte sentimento di non appartenenza nella prima parte del titolo Togliamo il disturbo, la marginalizzazione dell’insegnante che crede(va) nel suo lavoro. Non se ne parlerà, professor Segre, è una scommessa che vorremmo perdere, ma non se ne parlerà, tanto meno a lungo.
Forse, però, Segre è tanto entusiasta e fiducioso perché non sa che Paola Mastrocola, docente di Italiano e Latino in un liceo scientifico del torinese, è una pasionaria della scuola e negli ultimi dieci anni ha scritto molti libri che con graffiante ironia e godibilissima leggerezza hanno raccontato il graduale svilirsi del ruolo dell’insegnante e l’inevitabile conseguirne della crescita dell’ignoranza degli studenti. Solo alcuni fra i tanti. Ne “La scuola raccontata al mio cane” pubblicato, come gli altri, da Guanda tra aneddoti, curiosità e paradossali effetti comici, il ritratto di un mestiere che davvero "non c'è più", perché è stato snaturato e ingabbiato in un labirinto di "progetti", "assi linguistici", "strategie educative" e "recuperi". Anche ne “La gallina volante” tempi e luoghi sono quelli della scuola e il tema , surreale in apparenza – il progetto di far volare la gallina che Carla, la protagonista, alleva nel suo giardino – è, fuor di metafora, la riscoperta della libertà attraverso la conoscenza. I titoli dei primi libri della Mastrocola hanno a che fare con le favole, come ne “Una barca nel bosco”, la storia di Gaspare, figlio di un pescatore e aspirante latinista, che vive a Torino dove si è trasferito da una piccola isola del Sud Italia; un ragazzo che a tredici anni traduce Orazio e legge Verlaine, deve fare il liceo, uscire dal mondo statico dell'isola. Nel liceo non troverà grandi maestri ma insegnanti impegnati a improvvisare improbabili compresenze per progetti pluridisciplinari. Né si integra con i compagni: è fuori moda, fuori tempo, fuori posto: un pesce fuori dalla sua acqua, una barca in un bosco.
Passerà inosservata anche quest’ultima fatica (che sia stata una fatica lo spiega la Mastrocola nella presentazione)?
Sì! Chi è nella scuola ne è convinto. Il prof. Segre ne è lontano da tempo.

Le pagine iniziali del libro, in libreria dal 17 febbraio.
Noi sghembi
C’era un geniale programma della Rai, si chiamava Specchio segreto: veniva piazzata una telecamera nascosta, e un attore interagiva con persone comuni che non sapevano di essere riprese. Il risultato erano scenette comicissime, scanzonate e surreali. Ad esempio quella in cui il regista Nanni Loy entrava in un bar, faceva finta di essere uno come gli altri, prendeva una brioche al banco e, con fare indifferente, la intingeva nel cappuccino dell’ignaro avventore che gli stava accanto.
Ci sono norme dell’interazione sociale che non hanno neanche bisogno di essere scritte tanto sono scontate: non si inzuppa la propria brioche nel cappuccino altrui! Così come non si va in mutande al ristorante, e non si fa la lingua ai passanti. Non si fa, ecco, appunto. Mi sono spesso sentita così, scrivendo questo libro: come una che al bar prende una brioche e la intinge nel cappuccino di un altro. Mi sono sentita scorretta e storta, inappropriata e sconveniente, e fuori posto[…]. Non stavo trasgredendo le normali regole del vivere civile; certo è, però, che stavo pensando cose che non bisogna pensare, né dire, né vedere.
Ma io le vedevo. Come facevo a non dirle…[…] le cose che ho tutti i giorni sotto gli occhi: i nostri giovani a scuola, per strada, al bar, al ristorante, nelle piazze alle tre di notte, nonstudianti, assenti, chattanti. […] la mia personale « modesta proposta »: in poche parole, vi dico come farei io se governassi l’universo, quale scuola mi inventerei. Ed è lì l’idea che non bisognerebbe avere, scorretta, inappropriata, fuori posto. L’idea sghemba, direi. Non bella dritta come tutte le idee degli altri. Ecco, idee sghembe: quelle che non dovremmo nemmeno cominciare a pensare. Idee scorrette. Direi culturalmente, più che politicamente, scorrette. Sì, esiste oggi un culturally correct ingombrante, greve. Forse erano già lì da qualche parte, pronte all’uso: una specie di preˆt à penser. Le abbiamo indossate, e adesso fanno parte di noi e non le mettiamo mai più in discussione: e infatti dominano il nostro mondo.
Tutto qui, non c’è altro. Il problema è soltanto che quel che vedo è così enorme, così fuori misura e anche doloroso, che viene da ignorarlo. Per non stare tanto male, viene da fare come se non ci fosse.
Lo so. Ma guardare è un nostro dovere preciso. Guardare tutti insieme. Anche a costo di far saltare qualche pezzo della nostra quieta e così compatta esistenza.
I born digital
Nel mondo, fuori dalla scuola, regna il Web. Siamo nell’era di Internet, dell’information technology, del pc.
Il computer è un dio, uno e trino: Internet, Google e Facebook.
Internet: la rete planetaria di interconnessione globale, immenso scatolone che contiene tutto l’esistente, lo rende accessibile e permette di raggiungerlo attraverso legami, rimandi, collegamenti infiniti. Google: l’onnipotente motore di ricerca che va a scovare quel che vuoi. Facebook: la piazza, il mercato, il Luogo di tutte le relazioni, contatti, rapporti d’amicizia, d’amore o di lavoro. Una rete, un motore e una piazza: il Potere, il Sapere, l’Amore.
Tre dee: Era, Atena, Afrodite. Con il corredo di sottodei e ninfe che popolano animisticamente l’universo-computer: Wikipedia, Google Earth, Twitter… I ragazzi sguazzano in questo universo, lo dominano: sono i signori del Web. Sono i born digital, l’Internet generation. Una nuova stirpe di umani. Nessuno sa ancora bene come si stiano evolvendo, ma è chiaro che nulla sarà più come prima.
Neuroscienziati, studiosi della Rete e della comunicazione, computer scientists, futurologi internazionali stanno studiando l’impatto che le tecnologie digitali hanno sulla mente umana e sul comportamento dei nuovi giovani. Nulla è certo. Ma pare che si tratti di un vero e proprio cambiamento antropologico. Si stanno acquisendo nuove abilità mentali: dal pensiero non sequenziale al multitasking. Pare che la diversità sia persino rilevabile clinicamente: la risonanza magnetica può ora evidenziare modificazioni alla corteccia cerebrale. Dall’homo sapiens all’homo videns all’homo zappiens.
Siamo di fronte a una nuova specie umana con la mente « ricablata », resistenze superiori, intrecci neuronali più complessi e un approccio non lineare al pensiero e al lavoro,
reazioni più rapide agli stimoli, miglioramento dei riflessi e dei processi collaborativi…