martedì 1 marzo 2011


Annie Girardot. “Il più bel temperamento drammatico del dopoguerra” di Tony Tundo

Le attrici degli anni ’60 - proprio come accade oggi - son passate tutte dalla passerella dei concorsi di bellezza, molte dalle “cure” di un Pigmalione a costruirsi un’ identità professionale come Sophia Loren, come Lucia Bosè, come la Bergman, da muse ispiratrici a dive.
Annie Girardot, scomparsa ieri a 79 anni, invece aveva studiato, frequentando il conservatorio e poi la Comédie-Française.
Fu Cocteau, vedendola a teatro alle sue prime prove, a cogliere il suo talento “il più bel temperamento drammatico del dopoguerra”. Lei non aveva forme generose, non era Raquel Welch, sogno proibito del maschio italiano, e neanche l’innocente ma conturbante viso d’angelo alla Marylin Monroe, aveva fascino e un’espressività inarrivabile. Non sfuggì ai più grandi registi italiani e francesi, da Mario Monicelli, a Marco Ferreri, che la scelse per "La donna scimmia", tra fenomeno da baraccone e straripante sensibilità, una satira sferzante sull'ipocrisia e la crudeltà della società italiana. Una parte scomoda per il modello femminile del tempo e che, soprattutto, richiedeva mestiere.
Lavorò con Patroni Griffi, Corbucci e Comencini, Claude Lelouch la volle nei suoi "Miserabili", accanto a Jean Gabin fu la mitica moglie di "Maigret" nel ’58.
Il terzo César è più recente, per "La pianista", del regista Michael Haneke, film tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice premio nobel Elfriede Jelinek, una sceneggiatura difficile fra il tragico, il comico e lo humour nero; quello della Girardot è il ruolo complesso di una madre tirannica e perversa (basta leggere il libro, impegno non facile, per comprendere la complessità di dar vita al personaggio). Ha vinto, in Italia, un David e una Coppa Volpi a Venezia, mentre a Berlino è stata premiata per "La tardona".
La mia generazione l’ha molto ammirata, vedevamo in lei la modernità, la determinazione, a pensarci oggi eravamo un po’ radical-chic, a me non appariva inarrivabile come Audrey Hepburn, fredda e statuaria come Ava Gardner, ma intensa e appassionata come noi - generazione di giovani donne, prime (questo credevamo) a tentare di liberarsi dai tabù, a tentare di sprovincializzarsi - volevamo essere; a pensarci oggi, senza di certo più etichette, e rivedendo i film della Girardot, primo fra tutti naturalmente “Rocco e i suoi fratelli”, il capolavoro assoluto, ne sentirei sempre più il fascino. Non è la sua morte che turba, la malattia terribile piuttosto pone delle domande: lei aveva dimenticato chi era stata a causa dell’Alzheimer. Forse per chi ha conosciuto la gloria, ha ricevuto il César e il David, ha recitato all’Opera, un sipario ancorché calato da un’impietosa malattia, può essere “utile” contro la spietatezza dei fantasmi della memoria. Eppure hanno voluto filmarla, in nome di un battaglia civile, già ammalata, circondata dai suoi trofei, ormai per lei arredo senza storia, ancora una volta - l’ultima - attrice senza nome in una parte senz'anima. E' questo che turba più della sua stessa scomparsa.